«A mali estremi, estremi rimedi». La saggezza popolare ha riassunto in questo adagio la logica del cosiddetto principio di necessità, secondo cui è accettabile derogare dalle norme generali in presenza di circostanze eccezionali – calamità naturali, stato di guerra, epidemie eccetera.

Così di fronte alla minaccia virale che ha colpito il mondo nel 2020 abbiamo accettato numerose restrizioni alle libertà civili, convinti che fossero temporanee. Nella storia del mondo si è aperta una parentesi e due anni dopo ci chiediamo se mai si chiuderà.

In seguito alla prima proroga dello stato di emergenza da parte del governo Conte, la filosofa Donatella Di Cesare aveva già sollevato le due domande dirimenti per la politica occidentale: «Fino a quando? E sarà ancora democrazia?»

Ponendo una rigida simmetria tra l’intensità del male e quella dei rimedi, ugualmente estremi, la saggezza popolare prescrive ancora un’altra cosa ovvero – ce lo ricordano insistentemente i giuristi – la proporzionalità tra male e rimedi.

Perché gli estremi rimedi possono fare estremamente male. Ma in assenza di un criterio oggettivo e condiviso per soppesare costi e benefici, la questione si fa inevitabilmente soggettiva. Cioè politica, o magari filosofica.

Secondo Giorgio Agamben, ad esempio, il male della pandemia non sarebbe poi tanto estremo, anzi è un pretesto per imporre dei rimedi più che estremi: drastici, dispotici e soprattutto duraturi. È la «deriva complottistica» di un grande pensatore, secondo Di Cesare.

Eccezione o emergenza?

Agamben lo ripete da vent’anni: viviamo in uno stato di eccezione. Dall’Undici settembre al Covid diciannove, le leggi dello stato di diritto vengono continuamente sospese per venire incontro a presunte emergenze. Così le nostre democrazie scivolano lentamente nel totalitarismo.

Con la pandemia queste idee sono fuoriuscite dalla nicchia dei filosofi politici e dei militanti di ultrasinistra per occupare segmenti più ampi di opinione pubblica, unendosi talvolta col complottismo più becero.

Eppure, come sostiene anche Di Cesare, sbaglia chi crede di poter liquidare queste idee senza confrontarsi con esse, o peggio chiudendo gli occhi sulle trasformazioni epocali che tentano di descrivere.

Più utile sarebbe chiedersi se la teoria agambeniana dell’eccezione effettivamente funzioni, e per capirlo non c’è lettura migliore di un saggio appena uscito per nottetempo e anticipato sulle pagine di Domani, intitolato appunto Cos’è lo stato di eccezione?

Qui gli autori Mariano Croce e Andrea Salvatore ripercorrono la storia del concetto risalendo fino al suo interprete più noto, il giurista tedesco Carl Schmitt. Gli autori mostrano che lo stato di eccezione è un concetto fumoso fin dall’origine: nella sua Teologia politica Schmitt non chiarisce in che modo il sovrano riesca concretamente a sospendere l’ordinamento e a imporre le sue decisioni.

È pur vero che nel 1933 Hitler sfruttò un articolo della costituzione di Weimar per avocare a sé i pieni poteri, inaugurando per citare Agamben «uno stato di eccezione durato per dodici anni». Ma per ravvisare delle analogie tra quella situazione e quella attuale, come fa il filosofo, bisogna avere molta fantasia.

Non foss’altro perché in questi due anni a mancare sono state proprio le decisioni. Abbiamo semmai visto l’esecutivo – prima Conte, poi Draghi – operare come semplice camera di compensazione degli interessi delle varie parti sociali. È questo grigio lavoro di cancelleria, assai poco sovrano, ad avere prodotto i colorati mosaici di misure noti come Dpcm e decreti legge.

La cosa più importante su cui insistono Croce e Salvatore è la differenza tra eccezione ed emergenza, tema sul quale erano intervenuti in questi mesi anche Donatella Di Cesare e Gustavo Zagrebelsky. In effetti una cosa è l’applicazione rigorosa del principio di necessità sulla base dei criteri sopra enunciati di temporaneità e di proporzionalità, e un’altra l’abuso eccezionalista di questo: un rischio che in questi mesi abbiamo continuamente lambito, ma che non può definire le politiche emergenziali in quanto tali.

Resta da capire, a questo punto, se lo scivolamento dall’emergenza all’eccezione sia un rischio che siamo definitivamente riusciti a scongiurare. 

Verso un’emergenza permanente

Attorno allo stato di eccezione Schmitt e Agamben hanno contribuito a creare un alone mistico e inquietante. Ma la verità è che il ricorso al principio di necessità è rigidamente regolato nelle democrazie costituzionali: non c’è atto normativo che non venga presto o tardi, direttamente o indirettamente, convalidato dal potere legislativo attraverso la conversione in legge ordinaria.

L’eccezione definisce tutt’al più una latenza, il tempo necessario per assorbire un’innovazione normativa nell’ordinamento. L’abuso frequente della decretazione d'urgenza è certo un serio problema di assetto istituzionale, ma fondamentalmente un problema tecnico.

Il vero problema, tutt’altro che tecnico o formale, è semmai costituito dal contenuto delle misure che vanno così ad aggiungersi all’ordinamento, rendendolo vieppiù burocratico, insostenibile e talvolta persino contraddittorio. «La normalità non la si crea a colpi di eccezione», scrivono Croce e Salvatore evocando il pensiero di Schmitt, bensì «all’opposto, creando le condizioni per una gestione non eccezionale delle emergenze».

Non si capisce se Agamben tema di più la sospensione dell’ordinamento o l’ordinamento in quanto tale; se sia più liberticida la legge oppure l’eccezione. Fondamentalmente gli opposti per lui si equivalgono: l’ordinamento gli appare come un archivio di tutte le eccezioni passate, le leggi come delle antiche misure emergenziali alle quali ci saremmo abituati.

Ma questa equivalenza ha senso soltanto ammettendo che leggi siano effetti di cause che sono venute meno o addirittura mai esistite: una epidemia «inventata» dice Agamben. Il problema invece è che né le epidemie, né il terrorismo, né le crisi economiche, e men che meno le esternalità della modernizzazione e gli eventi climatici estremi, sono eccezionali: questo rischi non soltanto sono reali ma per giunta sempre più frequenti. Insomma è l’effettiva proliferazione delle catastrofi a definire la nuova normalità che l’ordinamento si attrezza per gestire.

A nessuno, eccetto forse una minoranza di masochisti, piace indossare una mascherina umida sul volto, fare continui test in farmacia, sottoporsi a punture, essere rinchiusi in casa e dover mostrare una certificazione per andare al bar. Eppure dal marzo 2020 non facciamo altro.

Abbiamo sospeso libertà fondamentali e negoziato su valori che credevamo non negoziabili, tutto questo per contrastare la diffusione di un virus capace di paralizzare le nostre società, le sue procedure, le sue infrastrutture, il suo sistema produttivo, i media e la comunità scientifica.

Il nostro incubo

Ulrich Beck lo aveva annunciato trent’anni fa: «La società del rischio è una società della catastrofe. In essa lo stato di eccezione rischia di diventare la norma». Con ciò il sociologo tedesco intendeva che la vita nella tarda modernità si presenta ormai come una successione di emergenze reali che progressivamente plasmano le abitudini e il diritto.

Contrariamente all’opinione di Agamben, l’aumento delle restrizioni, delle precauzioni e dei controlli si realizza nella più pura legalità per rispondere a una proliferazione oggettiva dei rischi.

È questo stato di rischio permanente ingenerato dal progresso tecnologico – non certo da “invenzioni” del potere – che sta annientando le condizioni di pace, prosperità, sicurezza che avevano reso possibile la civiltà liberale.

In effetti una società che produce su scala industriale terrorismo, criminalità, malattie, inquinamento, deve anche dotarsi delle contromisure necessarie – controllo, prevenzione, razionamento –  per non soffocare nelle proprie esternalità negative.

È un incubo? Certo che è un incubo. Ma è il nostro incubo. E contrariamente a quello che sembra ritenere Agamben, non basterà chiudere gli occhi per cacciarlo via. Altro che invenzione: è il mondo che abbiamo costruito.

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