Continuiamo a interrogarci sulle radici identitarie della nostra Repubblica e nel contempo sulle prerogative del capo dello Stato nelle crisi di transizione, quale indubbiamente il sistema politico italiano sta ancora attraversando. Approssimandosi i 150 anni dalla nascita, quanto mai opportuna risulta una riflessione sulla figura e sull’azione di Luigi Einaudi (1874-1961). Di fede monarchica e liberale, egli fu eletto l’11 maggio 1948 dal parlamento come primo presidente della Repubblica; il suo settennato ebbe un carattere costituente nella legittimazione del ruolo del presidente come figura di “garanzia” e nell’immaginario repubblicano.

Il 12 maggio 2018 a Dogliani, in occasione del settantesimo anniversario del giuramento e dell’entrata in carica, Sergio Mattarella volle significativamente ricordare che a Einaudi «è toccato, allora, con Alcide De Gasperi, il compito di definire la grammatica della democrazia italiana appena nata».

Richiamò anche quale fosse il suo stile presidenziale: «Con la discrezione e la fermezza che lo caratterizzavano diede vita a un dialogo di permanente e leale collaborazione istituzionale, proponendo una penetrante “moral suasion” nei rapporti con il governo, a partire dall’esercizio del potere previsto dall’articolo 87 della Costituzione (…). Consigli, previsioni, esortazioni che gli valsero, da taluno, la definizione di pedante».

Il richiamo e l’ispirazione einaudiani che ritroviamo nell’azione di Sergio Mattarella sono un incentivo a riconsiderare la figura del “presidente professore” come “costruttore” dell’immagine della Repubblica tramite le sue rappresentazioni sia politico-istituzionali sia simbolico-rituali.

L’abito della Repubblica

Nel discorso di insediamento Einaudi si richiamò alla Costituzione nel presentarsi come “tutore della sua osservanza”, rimarcandone i due principi fondamentali: «Libertà della persona umana contro l’onnipotenza dello stato e la prepotenza privata» e «qualunque siano i casi fortuiti della nascita, la maggiore uguaglianza possibile nei punti di partenza». La salita al Quirinale di un uomo del nord seguiva quella di Enrico De Nicola, uomo del sud.

«Chi gli succede ha usato, innanzi al 2 giugno 1946, ripetutamente del suo diritto di manifestare una opinione, radicata nella tradizione e nei sentimenti dei suoi paesani, sulla scelta del regime migliore da dare all’Italia; ma, come aveva promesso a se stesso ed ai suoi elettori, ha dato poi al nuovo regime repubblicano voluto dal popolo qualcosa di più di una mera adesione».

Emblematico fu l’esordio pubblico di Einaudi, da poche settimane eletto, nella cerimonia che il 2 giugno avviò l’annuale liturgia civile per l’anniversario della nascita della Repubblica. «Einaudi stava salendo per la prima volta sull’Altare della Patria come presidente della Repubblica.

Migliaia di occhi fissavano quell’uomo piccolo e magro, in un abito nero di borghese, che faceva un gradino per volta, appoggiandosi al bastone, piegandosi ad ogni passo da una parte, e il confronto con gli altri uomini che nel passato avevano fatto lo stesso itinerario, vestiti di vistose monture, impennacchiati, pettoruti, costellati di decorazioni e di ordini cavallereschi, con sciarpe ed emblemi, non gli era affatto sfavorevole». (La Repubblica degli Italiani simbolo dell’unità nazionale, Il Nuovo Corriere della Sera, 3 giugno 1948).

«L’abito della Repubblica» apparve allora ed impresse ai costumi repubblicani un decoro ed uno stile che fecero scuola, nello sviluppo senza enfasi di una misurata pedagogia civile e di una ritualità pubblica emancipata della debordante retorica fascista.

Esercitò il suo ruolo nel rispetto dell’autonomia dei poteri ma rivendicando le sue prerogative; non mancò di intervenire sulle questioni inerenti la vita sociale e politica del paese. Rispetto alla maggioranza centrista che lo aveva eletto, egli interpretò il suo ruolo in modo tutt’altro che notarile, svolgendo una continua azione di moral suasion, attraverso quesiti, richieste di informazioni e di adeguamenti legislativi, di cui abbiamo un riscontro puntuale nel suo Scrittoio del presidente (1956).

Le polemiche e lo stile

La condotta di Einaudi suscitò polemiche soprattutto in occasione della promulgazione della legge elettorale del 1953 e nel contestuale scioglimento del Senato, cui seguirono la mancata introduzione del premio di maggioranza nel voto del 7 giugno ed il fallito reincarico governativo a De Gasperi, costretto al ritiro dalla vita pubblica.

Nella gestione della crisi, Einaudi si avvalse dei poteri che la Costituzione gli assegnava e si oppose all’interferenza dei partiti nello svolgimento delle sue prerogative presidenziali. Incaricò Giuseppe Pella, il quale formò un monocolore democristiano di minoranza autodefinitosi “governo della nazione”, che ottenne la fiducia grazie al voto dei monarchici: apparve come una sorta di “governo del presidente” e sarebbe durato solo pochi mesi, in primo luogo per l’opposizione del gruppo parlamentare democristiano e quindi per il riverbero eclatante della supremazia dei partiti nella vita democratica. L’impronta politica e istituzionale che egli seppe infondere alla immagine della Repubblica fu apprezzata anche al momento della sua uscita di scena.

Lo osservò Piero Calamandrei, “padre della patria” di cultura azionista e democratica, riconducendo l’acquisita autorevolezza della Repubblica proprio allo stile presidenziale di Einaudi. «La Repubblica è una realtà che ogni giorno si consolida; indietro non si torna. La forma repubblicana, le istituzioni repubblicane, che sono la prima condizione giuridica del rinnovamento sociale, si rafforzano ogni giorno e diventano costume». 

Di quel “costume repubblicano” e del «senso di serietà e di composta dignità» impresso alla vita pubblica, continuava Calamandrei, Einaudi era stato l’ispiratore e l’esempio. Dopo sette anni «durante i quali egli ha saputo reggere e rafforzare con esemplare equilibrio i destini ancora vacillanti della giovane Repubblica», egli è tornato «alla sua biblioteca privata e si è rimesso a studiare e a scrivere, come un semplice cittadino». Sempre attuali risultano le Prediche inutili, apparse in dispense a partire proprio dal 1955 e pubblicate la prima volta nel 1959.

Convinzioni e cultura liberali trovarono espressione in Einaudi nelle norme, sovente richiamate nei suoi studi politico-economici, sul “buon governo”; ovvero su un agire politico fondato su valori etici nonché su una prospettiva di lungo periodo in cui si coniugano gli obiettivi dell’efficienza, dell’equità e della responsabilità. A concretezza e lucidità nell’analisi corrisponde un linguaggio nitido e accattivante, ancor oggi esemplare.

© Riproduzione riservata