I risultati ufficiali li conosceremo solo oggi pomeriggio alla chiusura dei seggi ma Giorgia Meloni si aspetta un trionfo dalle elezioni regionali in Lazio e Lombardia. Nel Lazio, a dieci anni esatti dalla fine del mandato di Renata Polverini, il centrodestra è pronto a tornare al governo. In Lombardia Fratelli d’Italia, il partito della premier, vuole confermarsi primo partito della coalizione cancellando ciò che rimane di Lega e Forza Italia in una delle regioni simbolo del potere territoriale di Matteo Salvini e Silvio Berlusconi.

Ma dietro le vittorie si nascondono le incognite di un partito cresciuto troppo in fretta. La leader è sempre più concentrata sulle questioni di governo, distratta dagli incidenti diplomatici internazionali, assediata dagli alleati e, terrorizzata da possibili errori e fughe di notizie, si affida a un gruppo sempre più ristretto di consiglieri.

Fratelli d’Italia, un tempo gestito come un’azienda familiare, si sta riempiendo di vuoti e a riempirli arrivano i colonnelli, il nome ironicamente attribuito ai potenti capicorrente di Alleanza nazionale ai tempi di Gianfranco Fini.

I “nuovi” colonnelli sono storici dirigenti di partito indipendenti da Meloni, come i fratelli La Russa in Lombardia e Fabio Rampelli nel Lazio, nuove leve che hanno costruito i loro feudi locali, come l’europarlamentare Carlo Fidanza, o portatori di voti arrivati da altri partiti. Quindi poco fedeli al capo.

Insomma, anche se il risultato di queste elezioni sarà una vittoria, tutto lascia pensare che per Meloni i problemi aumenteranno.

Vedette lombarde

In Lombardia c’è già la fila per spartirsi il bottino della vittoria. Quella è la partita in cui Fratelli d’Italia rischia meno. Il candidato di coalizione è l’anonimo presidente uscente, il leghista Attilio Fontana, vincitore pressoché sicuro, poco problematico in campagna elettorale e forse ancora meno da presidente di regione.

I sondaggi danno Fratelli d’Italia nettamente sopra la Lega. Nel migliore degli scenari, il partito di Meloni può aspettarsi di doppiare quello di Salvini e di andare oltre il già notevole 28 per cento delle politiche.

Il partito dovrebbe passare dai tre consiglieri eletti nel 2018 a più di 25. In base a questi numeri, Fratelli d’Italia ha già chiesto il 70-80 per cento degli assessorati, cioè 8-10 posizioni, a seconda di quante saranno le deleghe distribuite, tra cui quella, fondamentale, alla sanità.

A coordinare il partito in questa cavalcata trionfale c’è la ministra Daniela Santanché, vulcanica imprenditrice passata da mille fasi politiche, anche se sempre nell’ampio ambito della destra. Santanché è quanto di più simile a un proconsole della presidente del Consiglio in Lombardia, ma la sua lunga carriera politica e la sua autonomia non la rendono certo una creatura di Meloni.

Televisivamente efficace e dotata in una peculiare forma di carisma, Santanché non è però una procacciatrice di voti, né un esperta della macchina del partito. Alle europee del 2019 aveva rimediato meno di 8mila preferenze, per fare un esempio. Sul campo, però, può contare su un veterano: Mario Mantovani, potentissimo ex vicepresidente della regione e assessore alla Sanità con Forza Italia, passato nel 2018 con il partito di Meloni e uscito poco tempo fa da una lunga serie di processi che lo hanno visto assolto o prescritto.

Come Mantovani, provengono da Forza Italia anche due dei consiglieri regionali uscenti di Fratelli d’Italia, Paolo Franco e Marco Alparone, quest’ultimo abbastanza influente da essere considerato tra i possibili vicepresidenti di regione. E sempre da Forza Italia arriva un altro candidato dato in ascesa, Marco Bestetti, ex commissario nazionale dei giovani di Forza Italia ed ex membro della corrente di Mantovani quando entrambi erano in Forza Italia.

Mantovani non è candidato (a settembre ha incassato l’elezione di sua figlia Lucrezia alla Camera), ma sul territorio, tra incontri e presentazioni di candidati, si muove molto più di Santanché, che tra le altre cose è anche ministra del Turismo.

Accanto a lei, come proconsoli “aggiuntivi”, si muovono in Lombardia due deputati. Marco Osnato, anello di congiunzione del partito con le categorie professionali, oltre che genero dell’assessore lombardo Romano La Russa, e la sottosegretaria Paola Frassinetti.

I fratelli La Russa, il presidente del Senato Ignazio e suo fratello Romano, siciliani di nascita, ma milanesissimi per radicamento e alleanze, incarnano lo storico blocco della destra lombarda. E finora si sono mossi in sintonia, o meglio non in aperto contrasto, con Santanché.

Quando la scorsa estate Santanché ha fulminato Letizia Moratti, che ancora sperava di essere la candidata di centrodestra («Se fossi in Letizia Moratti non mi agiterei») La Russa, che fino a quel momento aveva discretamente appoggiato l’ex sindaca di Milano, ha chiuso qualsiasi discussione con un rapido ed essenziale «sono d’accordo con la mia coordinatrice».

Nessuna protesta nemmeno quando Santanché ha annunciato che il fratello di Ignazio, Romano, non sarebbe stato ricandidato al consiglio regionale. Romano era finito nei guai per un video in cui era stato ripreso con il braccio destro teso ai funerali di Alberto Stabilini, storico esponente della destra e cognato dello stesso La Russa. Fumo negli occhi per Meloni, che sta prudentemente cercando di ripulire il partito dal nostalgismo fascista. Ad addolcire la mancata ricandidatura c’è stata la nomina a coordinatore della campagna elettorale e la promessa di assegnargli la vicepresidenza della regione e il potente assessorato al Welfare e sanità, un posto che vale quanto un ministero.

A chi le ha chiesto se ci siano tensioni con Ignazio La Russa, Santanché ha risposto che a Natale i due sono andati in vacanza insieme. C’è invece un clima da guerra fredda con il gruppo dell’europarlamentare Carlo Fidanza, storico rivale di Meloni al congresso di Azione giovani a Viterbo del 2004.

Se un candidato è sponsorizzato da Fidanza, di certo Mantovani non si farà vedere. E viceversa (anche se, come a Gallarate poche settimane fa, gli eventi sono a poche ore e poche centinaia di metri di distanza).

In Lombardia Fidanza è diventato punto di riferimento di tutto l’universo dell’estrema destra lombarda, anche se più per convenienza che per convinzione. E ora si trova in una posizione scomoda.

Così ha dovuto rinunciare alla candidatura di alcuni dei suoi “uomini forti”, come il consigliere comunale di Busto Arsizio Checco Lattuada, militante da trent’anni, scelto per le regionali dal suo circolo locale, ma silurato per ordini arrivata da Roma a causa dei passati guai per le sue simpatie naziste.

Fidanza può invece contare su Chiara Valcepina, consigliera comunale di Milano. L’inchiesta di Fanpage sulla Lobby Nera aveva svelato la sua partecipazione, insieme allo stesso Fidanza, a incontri in cui si inneggiava a Hitler.

Tra gli altri candidati di punta dell’europarlamentare c’è anche il consigliere uscente Marco Alparone, passato a Fratelli d’Italia da Forza Italia, e dato come addirittura come possibile vice di Fontana.

Il Lazio

L’evoluzione di Fratelli d’Italia è rappresentata dalla comparsa ufficiale delle correnti interne. Soprattutto nella regione dove Meloni ha costruito la propria carriera politica: il Lazio.

Nella scorsa consiliatura regionale FdI aveva ottenuto l’8,6 per cento – dietro Forza Italia al 14 e la Lega al 9,9 per cento – e aveva portato alla Pisana appena tre eletti.

Oggi veleggia verso il 30 per cento e punta a eleggerne almeno 25, oltre al presidente della regione, il civico di destra ed ex presidente della Croce rossa, Francesco Rocca.

Il successo annunciato anestetizza ogni critica, almeno esternamente. Tuttavia, proprio con la scelta di Rocca, si è aperta quella che ormai è riconosciuta da tutti come la faida dentro la famiglia laziale.

In realtà lo scontro a bassa intensità era cominciato con la formazione del governo, dove non era passata inosservata l’estromissione dell’ex mentore di Meloni, Fabio Rampelli. Capo della corrente dei Gabbiani della mitica federazione di Colle Oppio, Rampelli è stato fedele consigliere della leader. Ma al momento del trionfo è stato l’unico dei colonnelli a non ricevere una promozione. È rimasto vicepresidente della Camera, lo stesso ruolo che aveva all’opposizione. Poi l’ultimo sgarbo con la scelta di Rocca come candidato presidente, quando i sondaggi del partito dimostravano che Rampelli sarebbe stato il candidato ideale e lui stesso sarebbe stato disposto a correre.

La scelta di Rocca è legata più a una strategia interna che a una decisione convinta e consapevole. E il rischio di commettere un altro errore madornale come già accaduto con la candidatura di Enrico Michetti alle comunali di Roma è altissimo.

A via della Scrofa sono partiti dell’assunto che la vittoria nel Lazio era cosa certa, a prescindere dal candidato. Candidare Rampelli avrebbe significato regalargli un potere enorme nella regione simbolo, proprio nel momento in cui il vicepresidente della Camera è diventato il leader ufficiale dell’opposizione interna a Meloni.

Così è stato scelto Rocca, la cui corsa alla Pisana è stata costruita tenendo ben presenti gli errori compiuto con Michetti. Il candidato è rimasto in silenzio, fidandosi di chi gli ha spiegato che, nelle condizioni attuali, meno si parla, più voti si raccolgono. Soprattutto se la campagna elettorale viene condotta con la faccia di Meloni sui manifesti.

Sotto la cenere, però, il rancore ha continuato a covare tra rampelliani e ortodossi. L’affondo definitivo contro l’ex amico, però, lo ha portato la stessa Meloni con il commissariamento della federazione romana del partito, guidata dal rampelliano Massimo Milani sostituito ora dal fedelissimo toscano Giovanni Donzelli.

La colpa di Milani, secondo i suoi detrattori, sarebbe quella di aver sponsorizzato un evento di due candidati al consiglio regionale di corrente rampelliana, Fabrizio Ghera e Marika Rotondi, utilizzando gli indirizzi della mailing list del partito. «Illazioni», secondo Milani, ma tanto è bastato a Meloni per farlo fuori.

Dietro la congiura ci sarebbe l’altro colonnello meloniano che sta occupando lo spazio sottratto a Rampelli: il cognato della premier e ministro dell’Agricoltura, Francesco Lollobrigida.

Lo scontro interno ora si è spostato sulle preferenze dei candidati in lista. Quasi un referendum sulla stessa Meloni e la sua scelta, «ingrata» secondo alcuni dirigenti laziali, di marginalizzare Rampelli. Lui ha dedicato le sue giornate alla campagna elettorale e mobilitato tutte le truppe sul territorio, concentrando i suoi voti su quattro nomi forti.

Fabrizio Ghera, storico esponente di FdI e il più votato del gruppo nel 2018 con oltre dodicimila preferenze a cui ha affiancato la ventinovenne di Palestrina Marika Rotondi e gli uscenti che nel corso della consiliatura sono passati a FdI: il “Mr. preferenze” di Forza Italia, Antonio Aurigemma, che porta in dote 10mila voti, e Laura Corrotti della Lega, con tremila.

Lo scontro diretto è con i candidati di Lollobrigida, che sostiene gli altri tre uscenti: Gianfranco Righini, undicimila preferenze, e i due nuovi arrivati, la ex Cinque stelle Francesca De Vito, molto vicina alla deputata che ha ereditato il feudo di Meloni a Latina, Chiara Colosimo; e Massimiliano Maselli, prima candidato con Noi Moderati. Il nome forte di Lollobrigida, però, è quello di Roberta Angelilli, quattro mandati all’Europarlamento e in predicato di diventare la vicepresidente della regione con l’obiettivo evidente di “commissariare” Rocca.

Contati i voti si capirà da che parte sta la militanza del partito. Potrebbe essere la rivincita di Rampelli, che a quel punto potrebbe davvero ritagliarsi lo spazio per la prima corrente ufficiale dentro il partito, oltre a rivendicare assessorati di peso nella nuova giunta. Se lo scontro interno infuria, esternamente Rampelli ha continuato a mantenere militarmente la linea del partito: «Non c’è nessuna fronda. FdI è un partito stabile e ha una sua dialettica interna, non esistono correnti, nessuno le desidera, nessuno le farà», è la sua posizione pubblica.

I rischi per Meloni

In questa guerra tra colonnelli, i rischi sono tutti per Meloni. Dietro le due vittorie in Lombardia e Lazio, infatti, si nascondono le insidie di un partito che si è gonfiato troppo in fretta e con diversi livelli di fedeltà. Il risultato finale rischia di essere un passo avanti dei “milanesi” contro i “romani”, aggiungendo ulteriori gradi di separazione tra Meloni e la nuova classe dirigente che l’onda elettorale sta portando nei posti di comando. Lei, arroccata nel suo fortino e in balia dei molti impegni di palazzo Chigi, continua a circondarsi di fedelissimi che però hanno dato cattiva prova di sé nei primi test di governo.

Come il responsabile nazionale dell’organizzazione Giovanni Donzelli e il responsabile Giustizia, Andrea Delmastro, protagonisti dello scivolone sulla pubblicazione degli atti del Dap sul caso Cospito. Del resto gli impegni della presidenza del Consiglio non le permettono più di essere la leader militante che controlla capillarmente il partito. Per questo Meloni è costretta a fare quello che le riesce meno bene: delegare compiti a persone di cui non si fida al cento per cento.

Da qui la necessità di pensare a un imminente congresso, che potrebbe essere celebrato dopo le regionali. Ovviamente la Meloni non ha sfidanti all’altezza, ma bisogna metter mano all’organizzazione del partito.

Ci sono federazioni da ripensare alla luce del boom di militanti e iscritti (Fratelli d’Italia ha appena annunciato di aver superato nel 2022 le 200mila tessere con un aumento di oltre il 40 per cento rispetto al 2021), nuovi quadri da posizionare e coordinatori da scegliere alla luce della nuova geografia interna del partito. E le regionali saranno un test fondamentale per capire i rapporti di forza.

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