Fame, paura, vergogna. Queste sono le condizioni psicofisiche di cui faccio esperienza più di frequente nella mia vita e che non potevano non accompagnarmi anche al funerale di Silvio Berlusconi. Di questa giornata mi ricorderò per sempre che avevo fame, paura e vergogna.

Arrivo alle transenne dell’ingresso per la stampa in piazza Duomo alle 13 (fame) senza nessuna speranza che mi facciano entrare, dal momento che non ho accrediti a mio nome e che non sono tecnicamente della stampa. Non ho intenzione di insistere più di tanto, in cuor mio spero di essere respinta e andare a fruire di questo momento storico dal mio divano, come mi si confà, ma per una volta che la Storia si consuma a pochi isolati da casa mia mi sembrava doveroso fingere un minimo di intraprendenza.

Un paio di addetti già stremati stanno raccogliendo i nomi dei giornalisti dei vari Cavalli & Segugi, il signore davanti a me fa lo spelling della sua testata partendo da “L di Lorenteggio” e io capisco prima di lui che non lo faranno entrare. Poi tocca a me e con inverosimile nonchalance (vergogna) faccio il nome di questo giornale, già sapendo che altre penne più autorevoli di me associate a Domani compariranno nell’elenco dell’esausto funzionario.

E infatti il mio nome non c’è e mi fingo sorpresa, mentre sventolo il passaporto perché al momento non possiedo altri documenti. Sono in ciabatte, perché la mattina quando sono uscita di casa non pensavo che avrei partecipato a un funerale di stato (neanche pensavo che sarei andata in piscina, se è questo che vi state chiedendo, ma ultimamente fatico a separarmi dalla comodità di queste calzature impresentabili che qualcuno ha l’ardire di chiamare sandali ma che con ogni evidenza non sono scarpe degne di questo nome).

Però sono vestita di nero ed evidentemente questo, combinato al fatto che Domani è un giornale di comprovata esistenza nella loro lista, è sufficiente per farmi entrare con un «vabbè, vada». Quindi avanzo senza guardarmi indietro e all’altezza dell’Arengario realizzo che non pranzerò.

L’otite di De Laurentiis

E così inizia la puntata di Ai confini della realtà di cui mi trovo improvvisamente protagonista. La prima persona che incrocio è Antonio Razzi in scarpa stringata a fantasia Fendi, che forse le mie ciabatte sono meno brutte. Subito dopo intercetto un’unica faccia amica, quella di un amico giornalista che mi chiede cosa sono venuta a fare, e mi rendo conto che la risposta onesta è «non lo so».

Però ormai sono lì, ormai ho saltato il pranzo, una vocina nella mia testa mi suggerisce di carpire qualcosa, qualsiasi cosa, di sintonizzarmi con l’Hunter S. Thompson che è in me in questa giornata che passerà agli annali.

Scopro presto che in me non c’è nessun Hunter S. Thompson, forse perché non mi sono drogata abbastanza da giovane o forse c’era ma all’una è andato a mangiare. Comunque vago nella folla di giornalisti e gente di Mediaset, mi accosto al capannello raccolto intorno a Gerry Scotti, origlio conversazioni sperando di scovare chissà quale scandalo ma riesco solo a sentire qualcuno dire che a De Laurentiis è passata l’otite.

La fame a questo punto è insopportabile, mentre la paura subentra a stretto giro appena la mia mente viene attraversata da un pensiero paranoico: era da anni che non si vedeva un’occasione così ghiotta per fare un attentato. Sarà che ho appena finito di leggere V13 di Carrère, sarà che Theodore Kaczynski (Unabomber ndr) è morto solo qualche giorno fa, ma mi sorprendo a pensare che fossi una persona con ambizioni bombarole questa sarebbe la circostanza ideale per farmi notare. Per fortuna non la sono, considerata l’ardua resistenza che ho incontrato all’ingresso.

Verso le 2 ho modo di constatare la seconda grande falla nella sicurezza. Aprono un varco tra le transenne e cominciano a far entrare le persone nella cattedrale. Io sono in mezzo a un fritto misto Mediaset che comincia a migrare in quella direzione e seguo il flusso verso il Duomo. Ciabattando indisturbata, entro. Non perché sono brava, non perché improvvisamente me la sento Oriana Fallaci, ma semplicemente perché nessuno mi ferma.

Cristina D’Avena

A questo punto ho perso qualsiasi contatto con la realtà e ancora non mi pongo il problema che forse non dovrei essere lì. Prendo posto in un banco in fondo ma non troppo, sulla sinistra, abbastanza vicina a uno schermo per vedere le riprese aeree di Arcore e del feretro pronto a partire, ma piazzandomi comunque nelle sedute della navata centrale, a cui penso di avere diritto.

Il Duomo comincia a riempirsi e sento una signora dare indicazioni: parlamentari a sinistra, Mediaset a destra. Realizzo che sono seduta tra i parlamentari e che non siamo alla convention degli agenti immobiliari, come invece avrei dedotto dal gran numero di uomini di Boggi vestiti. Rimpiango di non aver scelto il lato Mediaset: alla mia destra, dall’altra parte della navata, vedo Cristina D’Avena.

Che bella storia per i miei nipoti sarebbe stata, se avessi partecipato al funerale di Berlusconi accanto a Cristina D’Avena. Se solo avessi saputo. Ma ormai è troppo tardi per spostarmi e quando vedo Alessandro Sallusti due file dietro di me capisco di essere fuori luogo. Le ciabatte erano il primo indizio, ma avrei giurato che non ci fosse un universo in cui io partecipo al funerale di Berlusconi due file davanti a Sallusti. E invece.

Decido che da quel momento in poi la cosa migliore da fare è fingermi morta: evitare il contatto visivo, mantenere un’espressione vagamente contrita, nascondere le ciabatte sotto al cuscinetto dell’inginocchiatoio. Vergogna. E così faccio, mentre negli schermi vedo passare il corteo funebre da piazza Cinque Giornate e intorno a me gli agenti immobiliari/parlamentari si spaccano di autoscatti di gruppo.

Quando il feretro entra in Duomo parte un applauso scrosciante a cui non prendo parte, un po’ perché non comprendo il senso dell’applauso al morto: per quanto qualcuno abbia sottolineato che la bara fosse dello stesso legno dell’Honduras di cui erano fatte le chitarre di Jimi Hendrix, nessuno sta suonando Foxy Lady, di sicuro non Jimi Hendrix.

Un po’ perché ci sono le telecamere e ci sono diversi membri della mia famiglia che non mi rivolgerebbero più la parola se mi vedessero in tv ad applaudire la salma dell’uomo che hanno passato anni, decenni, a detestare. C’è un limite alle brutte figure che posso fare in un giorno solo.

Faccio un casino?

Lo scorso aprile è morto il mio nonno materno, che più di altri ha passato gli anni a disprezzare Berlusconi. Negli ultimi tempi era particolarmente ossessionato dall’idea che sarebbe morto prima di lui, perché era più vecchio, certo, ma anche perché non aveva accesso ai super medici del Cavaliere, che era convinto l’avrebbero reso immortale.

Mi dispiace che non abbia avuto questa soddisfazione, per così poco, ma sono felice che non sia vissuto abbastanza per vedere sua nipote con le spalle ricurve ai funerali di Tutankhamon. Peraltro al funerale di mio nonno io non ci sono andata. Quando è morto ero all’estero e non sono riuscita a tornare in tempo, quindi ora, tra le file dei parlamentari nel Duomo di Milano, alla vergogna endemica si aggiunge il senso di colpa per aver dedicato mezza giornata al ricordo della persona che lui riteneva direttamente responsabile dei suoi problemi di cuore.

Nel corso dell’omelia, mentre ormai fame, paura e vergogna si mescolano in un vortice inarrestabile alimentato dalla delusione per una celebrazione senza scene madri perché purtroppo la realtà non è sceneggiata dagli autori di Succession, ripercorro i miei ricordi legati all’uomo che, almeno in teoria, sono lì a commemorare: le assemblee di istituto del liceo in cui fingevo di avere una coscienza politica, la volta che mi fece pensare «mica male questo Beppe Grillo» e l’anno in cui gioii della sua vittoria.

Era il 13 maggio del 2001, in Italia c’erano le elezioni politiche, ma per me era solo il giorno prima del mio nono compleanno. In quell’occasione mio padre dichiarò: se non vince Berlusconi, domani faccio un giro nudo della Cittadella.

Essendo la Cittadella il parco in cui io avrei festeggiato i miei nove anni, quella sera pregai che Berlusconi vincesse e mi risparmiasse l’imbarazzo. Il paese mi ascoltò e io da ventidue anni convivo con questo tormento: avrei potuto cambiare le sorti dell’Italia, se solo fossi stata meno conservatrice? Avrei dovuto lasciare mio padre correre con le palle all’aria?

Il dubbio a oggi mi attanaglia. Il funerale finisce senza che nessuno mi insegua con dei forconi in fiamme e la bara sfila di nuovo tra gli applausi in mezzo a una selva di cellulari alzati, seguita dalla famiglia, da Sergio Mattarella e dal governo al completo. Mi passano tutti accanto e siccome ormai sragiono e la fame mi rende cattiva, penso a quanto sarebbe facile fare un casino.

Lanciare una ciabatta, sputare nella folla, tirare una schicchera a Ignazio La Russa, farli pentire di avermi lasciato entrare. Ma non ho le energie, ho bisogno di zuccheri, e dopotutto preferisco mantenere il basso profilo. Tutti si ricordano il nome di Francesco Ferdinando, pochi quello dell’uomo che gli ha sparato.

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