Siamo troppi o troppo pochi? Nel 2022, per la prima volta dall’unità d’Italia, le nascite sono scese sotto la soglia delle 400mila unità, attestandosi a 393mila. Siamo sestultimi nel mondo per tasso di natalità. Una situazione che giustifica la preoccupazione pubblica per quella che appare una deriva demografica.

Eppure, se guardiamo ai dati mondiali l’umanità non rischia di finire per via della diminuzione delle nascite. Siamo fin troppi sulla terra. E continueremo a crescere almeno fino al 2100. La questione a livello globale sembra piuttosto la sostenibilità ambientale di questo continuo aumento della nostra presenza.

E allora, abbiamo o non abbiamo un problema?

Il dibattito intorno alla denatalità si è fatto sempre più acceso, in Italia come in altri paesi, non solo perché cala il numero dei nuovi nati, ma anche perché il tema si intreccia con le posizioni dei partiti di destra a favore della famiglia “tradizionale” e contro l’immigrazione, mentre i nuovi movimenti ambientalisti suonano l’allarme per il pianeta.

In questo conflitto sempre più acceso, appare flebile, però, la voce del femminismo, che pure sarebbe il soggetto più autorizzato a prendere parola. Non mancano singole autorevoli voci, ma per il pensiero e la politica che ha messo al centro la libertà delle donne si tratta di un tema difficile, quando non di un tabù. Perché, va detto, ogni discorso sulla fecondità in declino corre il rischio di tramutarsi in un atto di accusa verso l’autonomia femminile.

Così, l’argomento delle “culle vuote” rischia di essere lasciato a chi lo usa per colpevolizzarle, le donne. A chi troppo spesso dimentica che non si viene al mondo perché così dispongono le istituzioni politiche e religiose, ma perché ci sono donne e uomini, ma innanzitutto donne, che dicono sì alla nascita di nuovi esseri umani.
Come riconquistare questo spazio alla riflessione femminista?

Distopie del declino

Si può ricordare, per cominciare, che fin dal principio la preoccupazione per il declino demografico si è intrecciata alla paura della libertà delle donne e della diffusione della contraccezione. Nel 1976, nel pieno svolgersi della rivoluzione femminista, lo storico francese Pierre Chaunu parlò di «peste bianca». Anche per questo, già nel 1985, Margaret Atwood poté immaginare, nel suo romanzo Il racconto dell’ancella, l’instaurarsi di un regime politico autoritario come risposta al calo della fertilità, per ricondurre le donne al destino di riproduttrici.

Si trattava, allora, principalmente di una preoccupazione conservatrice. Perché per l’opinione pubblica liberale e progressista il tema è stato, fino al volgere le secolo, quello della «terra che scoppia», per usare le parole di un pensatore neo-malthusiano come Giovanni Sartori.

Tuttavia, è un fatto che nell’occidente opulento la riduzione della mortalità, la diffusione dei metodi contraccettivi, il declino dei tassi di fecondità, l’aumento della sopravvivenza dei bambini e della longevità degli adulti hanno mutato la struttura per età della popolazione. Questo ha generato nuove paure.

Un’altra distopia, il romanzo di P.D. James I figli degli uomini, scritto all’inizio degli anni Novanta e portato sugli schermi nel 2006 da Alfonso Cuarón, segnala il cambiamento nelle preoccupazioni pubbliche dovuto all’invecchiamento delle nostre società. Il disastro ecologico incombe e l’umanità è ormai condannata all’infertilità. Nella riduzione cinematografica è un’immigrata speciale, una donna incinta, colei che va portata in salvo e affidata ai “buoni” che lavorano al Progetto umano.

Le due scrittrici, Atwood e James, avevano colto lucidamente quanto la questione della riproduzione sarebbe stata centrale nel nostro futuro. Negli incubi occidentali la questione ambientale e la diminuzione della fecondità umana convergono a definire un mondo incapace di rigenerarsi.

Alcuni decenni più tardi, la questione demografica angoscia un’Europa in cui il futuro ha da tempo cambiato di segno. «Il futuro, non è semplicemente ciò che ci capiterà domani o dopodomani, ma ciò che ci distacca dal presente ponendoci, contemporaneamente, in una prospettiva, in un pensiero, in una proiezione», scrivevano Miguel Benasayag e Gerard Schmit nel saggio che nel 2004 ha nominato il nostro tempo come l’epoca delle «passioni tristi».

Abbiamo pensato che avremmo sconfitto le grandi malattie, abbiamo avuto fiducia nella crescita delle nostre società. Questo ottimismo è venuto meno, ancor più oggi dopo aver attraversato la pandemia e con la guerra tornata sul suolo europeo. Solo che invece di fare i conti con l’incertezza, abbiamo trasformato il futuro in pura negatività, l’incertezza in fallimento. Anche per questo ci sentiamo così: senza figli, senza futuro.

Abbiamo un problema?

Naturalmente, la questione demografica si declina in modo diverso a seconda della latitudine del mondo in cui ci troviamo. Il fantasma dell’estinzione si aggira nell’occidenteperché qui la natalità decresce. Il vecchio continente diventa sempre più vecchio.
E l’Italia, in questo quadro, detiene un primato negativo, a causa di una tendenza che viene da lontano. Letizia Mencarini e Daniele Vignoli, in Genitori cercasi, parlano di «trappola demografica», mostrando come il crollo delle nascite sia causato dalla contrazione della fertilità e dalla diminuzione delle donne in età fertile.
I paesi che hanno vissuto prima e con più decisione il calo della fecondità dagli anni Settanta in poi sono stati i paesi più ricchi e sviluppati.

Oggi, però, i tassi di fecondità sono «positivamente correlati allo sviluppo economico, al reddito, al livello di occupazione femminile e all’uguaglianza di genere». E noi, l’Italia, siamo i penultimi in Europa per il tasso di occupazione femminile, siamo il paese che scarica sulle donne la gran parte del lavoro di cura.

Le donne, dunque, non fanno più figli. Per certi versi è la protesta silenziosa delle donne contro lo stato di cose presente. Anche se questa è solo una parte della storia.

Il modo in cui questi dati sulla denatalità sono trasformati in problema politico varia moltissimo in base ai posizionamenti, agli orientamenti valoriali e alle culture di riferimento dei diversi interlocutori. L’allarme sulla situazione della popolazione sembra suonare per tutti, ma quali siano le ragioni d’allarme è questione di punti di vista.

I timori possono riguardare la carenza di forza lavoro e di innovatività del sistema impresa, la tenuta del sistema fiscale e contributivo. O il declino di un modello di vita familiare tradizionale, le fantasie di estinzione e “sostituzione” del popolo inteso come “ethnos”.

Che fare, allora? C’è chi punta sull’immigrazione per ripopolare le nostre lande. E chi, invece, come la destra al governo, si aggrappa a ideologie etnonazionaliste. Si fa forte la tentazione di riportare le donne al loro posto, di ristabilire l’ordine “naturale” della famiglia eterosessuale e patriarcale, promuovendo tra l’altro un solo modello di famiglia come quello legittimato a riprodursi.

Abbiamo visto all’opera questa ingiunzione nella messa in discussione della possibilità dei comuni di registrare gli atti di nascita dei figli delle coppie omogenitoriali e nel parere negativo dato dalla maggioranza di centro destra al regolamento europeo che riconosce lo status di filiazione in un paese membro alle bambine e ai bambini che lo vedono riconosciuto nel loro stato.

Di questa strategia fa parte anche la colpevolizzazione da parte delle destre e dei movimenti pro life dell’aborto legale come fattore di accelerazione del declino demografico.

A rischio è il percorso di liberazione inaugurato dal femminismo nel corso del Novecento, l’autonomia e la libera soggettività conquistate nell’arco di decenni.

Una mutazione antropologica

Nessun discorso sull’avere figli oggi può prescindere, crediamo, dalla mutazione antropologica avvenuta a partire dal Novecento: le donne sono cambiate, e hanno provocato un cambiamento in molti uomini.

Certo non è facile capire dove si può tracciare la linea di distinzione tra la scelta consapevole di non avere figli, di sovvertire quel destino di madri che ha imbrigliato le biografie femminili per millenni, e la rinuncia imposta o indotta dalle condizioni economiche, politiche e sociali in cui viviamo.

In Italia una donna su quattro perde il lavoro con l’arrivo del primo figlio. I servizi per l’infanzia, le politiche di conciliazione o condivisione e gli investimenti sociali sono immensamente fragili. La richiesta della donne di Half of It del Next Generation Eu in Italia ha riguardato soprattutto questo nodo, i servizi educativi 0-2 anni, ma il dibattito si è subito richiuso e il Pnrr nella mani di questo governo non si sa che fine farà.

In un orizzonte di crescita costante delle diseguaglianze, anche la possibilità di avere figli, soprattutto di averne quanti se ne desiderano, è diventata privilegio delle fasce più abbienti, di donne con un lavoro stabile e ben retribuito, di famiglie che possono pagare di tasca propria i servizi di cura.

Eppure non basta l’economia a spiegare il calo demografico e le scelte riproduttive di donne e uomini, e la soluzione ai desideri inappagati di genitorialità non può essere solo economica.

Avere figli è una questione (anche) politica. Cosa significa? Che è una scelta che riguarda le persone singole ma attiene anche alla dimensione comune del vivere insieme, al modello di società che si costruisce e alla sua percezione del futuro. In questo senso, non è soltanto una questione di politiche di sostegno alla genitorialità, ma implica una visione politica di trasformazione del presente.

Generare mondo comune

Noi crediamo ci sia motivo di preoccupazione in questo scenario di bassa fecondità. Non, però, come vorrebbe la destra “nativista”, perché il mondo occidentale perda centralità o si indebolisca una presunta stirpe italiana o europea. Né solo perché il declino delle nascite determini un problema di tenuta dell’economia e del welfare, o perché produca uno scarto tra figli desiderati e figli avuti, quindi per un problema di desideri individuali inappagati – preoccupazioni, queste ultime, giuste e già care al fronte progressista.

Ci preoccupa anche perché pensiamo sia la spia dell’esaurirsi della capacità di investimento temporale e di cura e relazione tra le persone. In questo il nesso con la capacità di affrontare la crisi climatica è strettissimo. La fine delle “promesse del futuro” mina la nostra collocazione in una prospettiva temporale, mentre scegliere di diventare genitori è collocarsi esattamente in questa prospettiva, aprirsi al futuro, accettare l’imprevisto. Perché ogni nascita lo è.

Avere figli significa aprirsi alle relazioni, alla dipendenza, propria e altri, alla vulnerabilità, che tanto ci spaventa ma che la pandemia ci ha mostrato essere carattere costitutivo dell’umanità. E significa anche mettersi in una situazione di anteriorità, e dunque anche di responsabilità rispetto ai nuovi nati. Questo chiede di uscire dalla grammatica contrattuale che sembra oggi dominare le relazioni tra le persone.

Non stiamo parlando delle singole scelte di genitorialità, pensiamo piuttosto al modo di essere delle nostre società, ai legami che strutturano il mondo in cui viviamo. Diventare genitori, procreando naturalmente oppure grazie alle tecnologie, o adottando, o prendendosi cura di figli altrui, è una scelta che eccede la logica costi/benefici.

Di contro, la diminuzione delle nascite – superato il calo “fisiologico” dovuto al diffondersi della contraccezione e alla liberazione delle donne dal destino imposto – può significare l’adattamento a società con un orizzonte immaginativo ristretto, poco investimento sul cambiamento, perdita di legame tra generazioni.

Di fondo, si tratta della perdita di un mondo verso cui dirigere il desiderio di futuro, e quindi anche lo smarrimento di una dimensione che pensiamo sia centrale nella vita umana: la vita politica nel senso in cui l’ha intesa la filosofa Hannah Arendt, come cura del mondo comune.  Noi vediamo un circolo virtuoso, possibile, tra questo impegno e il desiderio di mettere al mondo nuove generazioni o di attivarsi in vario modo per la cura di altre e altri.

Nove punti

La Presse

Se allora guardiamo alla questione demografica attraverso la lente della libertà delle donne emergono alcune questioni che ci sembrano cruciali. E che possono rappresentare l’avvio di una discussione femminista sul tema, orientata da un’idea complessa e multidimensionale di giustizia: giustizia di genere, sociale, globale, climatica.

Proponiamo nove punti, per prendere sul serio il cosiddetto allarme demografico, vedendo però anche i limiti delle risposte politiche alternative che a questo vengono date.

Uno: la maternità è una scelta, non un destino. Nessuna discussione sulla denatalità deve rappresentare un arretramento rispetto al cambiamento portato nelle vita di donne (e uomini) dal femminismo, dal grande mutamento nei costumi riproduttivi, dalla maternità come scelta, dalla separazione tra sessualità e maternità.

Due: l’aborto legale non c’entra. La retorica antiabortista accusa la legge 194 del 1978 di aver causato sei milioni di non nati contribuendo al declino demografico. Ma non è la legge ad aver introdotto l’aborto, che è sempre esistito, praticato nell’illegalità. Negli ultimi quarant’anni, al contrario, le interruzioni di gravidanza hanno continuato a diminuire.

Tre: l’immigrazione è un fenomeno strutturale, che – tra altri benefici – tiene in equilibrio la bilancia demografica. Non “sostituisce” nulla, perché non c’è nessun “popolo” italiano, inteso come “ethnos”, da sostituire.

Quattro: nel mondo non c’è nessun declino demografico. Se alziamo lo sguardo oltre il nostro continente, la popolazione del pianeta continua e continuerà a crescere in alcuni paesi asiatici e africani. Concentrarsi solo sull’Italia, l’Europa, il mondo occidentale significa immaginare un mondo chiuso, preoccuparsi dei “nostri” figli e ignorare i figli degli altri.

Cinque: diventare genitori non può essere un lusso. Perciò bisogna combattere le disuguaglianze sociali e di genere. Le persone fanno più figli dove c’è più occupazione femminile, parità di genere, condivisione del lavoro di cura e servizi per l’infanzia.

Sei: nessuna misura di welfare pro natalista sciovinista e autoritaria, non importa quanto ammantata di retorica del “bene delle donne”, è accettabile in prospettiva femminista.

Sette: tutti i bambini sono uguali e vanno riconosciute tutte le famiglie. Le famiglie sono tante – omogenitoriali, monogenitoriali, allargate, ecc. – e non può esserci gerarchia tra bambini venuti al mondo in modo diverso.

Otto: avere figli non significa solo fare figli. La genitorialità e il prendersi cura non sono solo legate ai rapporti di consanguineità e non dipendono solo dall’aver vissuto la gestazione e il parto. Il tema riguarda anche gli uomini, ed esperienze di adozione, affido, e volontariato in favore di minori sono forme di cura che esigono rispetto e riconoscimento.

Nove: non avere figli è (anche) libertà. Vanno rispettate tutte le scelte delle donne. L’identità femminile non è riducibile all’essere madre. Anche questo ce l’ha insegnato il femminismo.

Torniamo così dove eravamo partire, alla libertà delle donne, senza tener conto della quale pensiamo che qualunque politica demografica sia destinata al fallimento. Al contrario, le libere scelte, i percorsi di liberazione femminile nel pianeta, possono aiutarci a restituire al mondo cura, desiderio, creazione e futuro.

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