È una domenica ventosa sotto Montepellegrino. Allo stadio della Favorita gli spettatori sono undicimila, il Palermo ospita l’Ascoli, diciassettesima partita del campionato di calcio di Serie B. Lo striscione, lunghissimo, resta esposto alla curva sud esattamente per tre minuti. Avviso da brivido: «Uniti contro il 41 bis, Berlusconi dimentica la Sicilia».

I poliziotti si arrampicano sugli spalti, c’è qualche tafferuglio, un agente è ferito all’occhio destro, tre tifosi fermati, in serata sfilano in caserma quarantuno ragazzi sospettati di avere preso parte all’aggressione. Li rilasciano la mattina dopo. La dichiarazione più banale, e inutilmente fuorviante, è quella del questore Francesco Cirillo: «Si tratta di un episodio tutto da chiarire, cercheremo di capire chi ha voluto mandare quel segnale e perché».

Chiarire? Capire? Da chiarire o da capire c’è niente, è già tutto chiarissimo. La mafia di Palermo chiede conto e ragione al presidente del Consiglio in carica delle promesse non mantenute. E non è la prima volta. Da molti mesi c’è una rabbia che sale, un risentimento cupo che il tam tam carcerario porta minacciosamente all’esterno: «Iddu pensa solo a Iddu». Lui pensa solo a sé stesso. E lui è sempre lui: Silvio Berlusconi. A luglio di quello stesso 2002 Leoluca Bagarella, cognato di Totò Riina, durante un’udienza della corte di Assise di Trapani, in video collegamento dal carcere dell’Aquila legge un comunicato: «A nome di tutti i detenuti sottoposti all’articolo 41 bis, stanchi di essere strumentalizzati e vessati..aspettiamo precisi segnali».

Iddu pensa solo a Iddu

Sono passati dieci anni dalle stragi siciliane, tutti i grandi boss di Cosa nostra – escluso Bernardo Provenzano, ancora ben protetto – sono stati catturati e marciscono nelle segrete dell’Asinara, di Sollicciano, dei Pagliarelli di Palermo. Qualcuno, come Pietro Aglieri e Carlo Greco, provano a trattare con lo stato proponendo al procuratore nazionale antimafia Pierluigi Vigna una «dissociazione morbida» in cambio di sconti di pena. La mossa è astuta ma non riesce.

Dal 1992 in Sicilia non si spara un solo colpo, dopo l’inferno di Capaci e di via D’Amelio c’è un silenzio irreale. I padrini, dopo le bombe, garantiscono al popolo mafioso che «la politica avrebbe cambiato le cose». È passato del tempo e non accade nulla. Gli avvocati che difendevano i boss sono stati eletti alla Camera e al Senato ma le loro proposte di legge per attenuare gli effetti dell’ergastolo o del carcere duro non “camminano”, vanno avanti solo quelle sul falso in bilancio e sul legittimo sospetto. Iddu pensa solo a Iddu.

Il Sisde, il servizio di sicurezza interna, apprende «da attendibili fonti d’ambiente» che Cosa nostra è pronta a scatenarsi un’altra volta. In una nota inviata a palazzo Chigi avverte: «Informazioni inducono a ritenere altamente probabile che, a breve e a medio termine, Cosa nostra torni a colpire selettivamente e simbolicamente. L’obiettivo potrebbe quindi essere una personalità della politica che, indipendentemente dal suo effettivo coinvolgimento in affari di mafia, venga comunque percepito come compromesso con la mafia e quindi non difendibile a livello di opinione pubblica».

La nota continua, più precisa: «Questa linea di ragionamento induce a ritenere che l’onorevole Marcello Dell’Utri possa essere percepito da Cosa nostra come un bersaglio ideale. La sua esposizione mediatica dai contorni negativi e la sua vicinanza al presidente del Consiglio potrebbero essere ritenute dalla mafia utili per mandare un messaggio di forte impatto criminale e destabilizzante. Analogamente destabilizzante, in questa ottica, potrebbe ritenersi un attentato ai danni dell’onorevole Previti, il cui profilo pubblico è molto simile a quello dell’onorevole Dell’Utri».

Dell’Utri e Previti

Due obiettivi: Marcello Dell’Utri e Cesare Previti. Un po’ come nei primi anni Novanta. Far fuori tutti coloro che non avevano assicurato «il buon esito del maxi processo», i traditori: l’onorevole Salvo Lima e il potente esattore mafioso Ignazio Salvo. Non c’è mai niente di inedito nelle logiche mafiose, è sempre già tutto scritto.

È il secondo tempo dei rapporti fra Silvio Berlusconi e Cosa nostra. Non c’è più lo “stalliere” di Arcore, c’è sempre Marcello Dell’Utri, non ci sono più i Bontate e i Grado e Tanino Cinà usciti definitavamente di scena con la guerra tra le famiglie ma adesso ci sono gli zombie del 41 bis. E soprattutto ci sono i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, i veri custodi dei segreti delle stragi del 1992 e del 1993. Le cose andranno né come speravano i boss detenuti né come presupponevano gli agenti dei servizi di sicurezza interna, le cose in Italia si “aggiustano” sempre.

È ancora libero, ricercato dal 1963, il corleonese Bernando Provenzano che sta traghettando Cosa nostra fuori dalla strategia stragista riportandola nel solco della tradizione. Verrà catturato solo quattro anni dopo quello striscione esibito alla stadio della Favorita, preso l’11 aprile del 2006 a qualche centinaia di metri dalla sua casa di Corleone. Latitante, dal 1993, è anche Matteo Messina Denaro, un altro che ha il sapere delle bombe mafiose.

Per disvelare la trama di questa temeraria relazione fra la coppia Berlusconi-Dell’Utri e il crimine siciliano bisogna però fare un salto indietro, tornare agli anni degli attentati. E a quando Sua Emittenza “scende in campo”. Tutta materia dell’ultima inchiesta sulle stragi, quella della procura della repubblica di Firenze che negli ultimi mesi ha intensificato verifiche e riscontri per decifrare come certi avvenimenti si sono incrociati nella settimana fra il 21 e il 28 gennaio del 1994. Una settimana decisiva. Per Berlusconi. Per Dell’Utri. Per i Graviano.

L’arresto dei Graviano

Cominciano dalla fine di quei sette giorni: dal 27 gennaio. Quella sera, Giuseppe e Filippo Graviano, mafiosi delle stragi legatissimi a Totò Riina e a Matteo Mesina Denaro, vengono arrestati a Milano al ristorante “Gigi il Cacciatore”. Cadono in una trappola, qualcuno non li vuole più fra i piedi. C’è Giuseppe D’Agostino, un palermitano di Brancaccio (il quartiere dove regnano da tre generazioni i Graviano), che sta accompagnando suo figlio Gaetano – un talento calcistico che poi giocherà anche in Nazionale – a una prova per i “pulcini” del Milan. È una “soffiata” quella che porta i carabinieri al ristorante milanese.

Vanno a colpo sicuro. Dichiarerà sibillino qualche anno dopo Giuseppe Graviano: «Se i carabinieri diranno la verità su come sono andati i fatti, se anche D’Agostino dirà chi li ha invitati a fare il provino al Milan...voi scoprirete chi sono i veri mandanti». Chi ha interesse, e proprio in quel momento, a far scivolare nella rete i Graviano? È questo uno dei punti centrali intorno ai quali la procura di Firenze ancora oggi sta indagando sulle stragi: vuole acquisire qualche elemento in più su quella cattura.

Perché, nei giorni precedenti al 27 gennaio, accade altro, molto altro. Ma ne verremo a conoscenze in seguito. Quando si pente Gaspare Spatuzza, il mafioso che carica di esplosivo la Fiat 126 di via D’Amelio, l’attentato contro Borsellino. E quando, sfiniti dalla lunga carcerazione e sempre più furiosi, iniziano a mandare i loro inquientanti segnali i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano. Sempre contro Silvio Berlusconi.

Gaspare Spatuzza

Il primo che fa il suo nome collegandolo direttamente alle stragi siciliane del 1992 e a quelle in Continente del 1993, è però “u’ Tignuso”, il pelato, Gaspare Spatuzza, l’uomo d’onore di Brancaccio che ha una tale venerazione per Giuseppe Graviano da chiamarlo fin da ragazzino «Madre Natura» o «Mio Padre». Spatuzza, che regge il mandamento di Brancaccio, nel 1997 finisce in carcere. Un anno dopo ha un colloquio investigativo con i magistrati della procura nazionale antimafia, fa intuire di conoscere molto sulla strage del 19 luglio 1992 ma non parla. Lo farà dieci anni dopo con i pubblici ministeri di Caltanissetta sbugiardando il falso pentito Vincenzo Scarantino imbeccato dai servizi segreti, ricostruendo un’altra dinamica dell’attentato di via D’Amelio, rivelando la partecipazione di uomini dello stato nell’esecuzione e nell’ideazione della strage.

Una confessione clamorosa che è l’anticamera per la revisione del processo Borsellino, definito dagli inquirenti siciliani «il più grande depistaggio della storia repubblicana». E, mentre riscrive la il copione sull’uccisione del procuratore di Palermo, Spatuzza racconta anche altro: i contatti fra «Madre Natura» e il «paesano nostro» e poi anche quell’altro. Uno è Marcello Dell’Utri, il secondo Silvio Berlusconi. È l’inizio dell’ultimo atto sulle indagini delle stragi di mafia che sfiorano un uomo che per quattro volte è diventato presidente del Consiglio.

Gaspare Spatuzza, in un faccia a faccia con i due fratelli Graviano – nell’aula bunker di Torino, nel dicembre del 2009 – ripropone la connection Palermo-Milano in uno strano gioco degli specchi dove i due boss sembrano non considerarlo “un infame”, lo trattano con rispetto, come uno di famiglia. Contorsioni mafiose che si decifreranno meglio poi. Quando, sotto altra veste, parleranno anche loro, “Madre Natura” e suo fratello Filippo.

Inizia da lontano Spatuzza: «Filippo in carcere mi parlava di Borsa, di Tizio e di Caio, di investimenti e di titoli, anche di Telecom, Fiat, Piaggio, Colaninno, Tronchetti Provera, ma la Fininvest era un terreno di sua pertinenza, come se fosse un suo investimento, come se fossero soldi messi di tasca sua». E ancora: «Potrei riempire pagine e pagine di verbale dell’amore che lega Filippo a Berlusconi e a Dell’Utri, Filippo era attentissimo nel seguire gli scambi, teneva in considerazione la questione Fininvest, gli investimenti pubblicitari. Mi diceva meraviglie di Striscia la Notiziaminimo investimento, massima raccolta di spot, introiti da paura».

Di notte Spatuzza legge Le cinque grandi religioni del mondo di Emma Brunner-Traut e Dio uno e Trino di Piero Coda per cacciare «il male» che si porta dentro e di giorno ricorda un incontro in via Veneto, a Roma, al bar Doney. È il 21 gennaio 1994. Testuale: «Giuseppe Graviano mi disse che la persona grazie alla quale avevamo ottenuto tutto era Berlusconi e c’era di mezzo un nostro compaesano, Dell’Utri...mi disse anche che ci eravamo messi il paese nelle mani». Aggiunge: «Graviano era molto felice, come se avesse vinto al Superenalotto, una lotteria. E mi spiega che si era chiuso tutto e ottenuto quello che cercavamo. Quindi mi dice che grazie a queste persone di fiducia che avevano portato a buon fine questa situazione... e che non erano come “quei quattro crasti (cornuti, ndr) dei socialisti”...». Gli chiede Spatuzza: Berlusconi, quello di Canale 5? Giuseppe Graviano: «Sì, quello di Canale 5». E, alla fine, riporta la rivelazione di Graviano sul «colpo di grazia», l’attentato per destabilizzare il paese in vista dell’uomo nuovo della politica italiana.

La bomba dell’Olimpico

Un’altra partita di calcio, questa volta all’Olimpico. Lì davanti, il 23 gennaio del 1994, c’è un’autobomba «per uccidere un bel po’ di carabinieri..non tre o quattro...almeno cento» in servizio d’ordine pubblico. È domenica, la Roma gioca contro l’Udinese e una Lancia Thema color bordeaux, imbottita di tritolo e tondini di ferro, è pronta a esplodere. Fuori dalla stadio Spatuzza ha in mano il telecomando. Qualcosa non funziona, «un problema tecnico», l’auto non fa strage. Le date: il 21 gennaio lui e “Madre Natura” in via Veneto; il 24 la strage misteriosamente fallita; il 27 l’arresto dei Graviano. E appena poche ore prima della cattura dei due mafiosi a Milano, il 26 gennaio, Silvio Berlusconi che annuncia la sua discesa in campo con uno spot che viene trasmesso per la prima volta dal Tg4, il famoso «L’Italia è il paese che amo». Ci sono due elementi in più raccolti dai procuratori di Firenze. In quegli stessi giorni di gennaio, a Roma, c’è anche Dell’Utri. Dorme all’hotel Majestic, poco lontano da via Veneto e in attesa della convention nella quale sarebbe stata annunciata la nascita di Forza Italia. Graviano invece ha preso alloggio in una villa a Torvaianica, vicino alla capitale. Ecco perché è la settimana decisiva. Per tutti. Per Berlusconi e per Dell’Utri che diventano padroni dell’Italia. E per i Graviano, carne da macello destinati al 41 bis.

Dopo i retroscena sulla morte del procuratore Borsellino, “u’ Tignusu” svela che i due fratelli, chissà come, si sentivano più sicuri a Milano che a Palermo. E pure di «un asso nella manica» che i boss di Brancaccio prima o poi caleranno. Così ricorda le parole di Filippo: «Facceli fare i processi a loro, perché un giorno glieli faremo noi, i processi». I mafiosi non parlano mai a caso. Quel giorno arriva. La voce proviene da una microspia nel carcere di Tolmezzo, “Madre Natura” che chiacchiera con il suo compagno d’aria Umberto Adinolfi fra il 2016 e il 2017.

Manda segnali obliqui, maestro di doppi e tripli giochi, Giuseppe Graviano fa sapere. Primo: «Lo volevano indagare... Berlusca mi ha chiesto questa cortesia... per questo è stata l’urgenza». Secondo: «Lui voleva scendere, però in quel periodo c’erano i vecchi e lui mi ha detto ci vorrebbe una bella cosa». Gli specialisti delle procure antimafia decifrano. «Voleva scendere», rimanda all’idea di Berlusconi di scendere in politica già prima del 1994. «Ci vorrebbe una bella cosa», rimanda all’idea di una strage per destabilizzare, in modo da favorire l’arrivo dell’“uomo nuovo”. La «cortesia», rimanda al «colpo di grazia» di cui parla anche il pentito Spatuzza.

Il «colpo di grazia» è un’altra strage. La contropartita al «colpo di grazia» e alla «bella cosa», sarebbe dovuta arrivare con il primo governo Berlusconi: il cosiddetto “decreto Biondi” che viene ritirato per l’opposizione della Lega e di Roberto Maroni, un decreto che vuole rivedere la carcerazione preventiva e che è appoggiato da un fronte che tra i sostenitori più accesi ha anche Licio Gelli. Il decreto, in altra forma, viene riproposto mesi dopo. Ma cade il governo. E il decreto svanisce.

La delusione dei fratelli Graviano per Berlusconi è forte. Perché non ha rispettato i patti. Loro, i più irriducibili fra i Corleonesi, per un po’ stanno zitti. Poi riprendono con gli avvisi, a volte misurati e a volte più scomposti. Tipo: «Ti ho portato benessere, 24 anni fa mi è successa una disgrazia, mi arrestano, tu cominci a pugnalarmi, per che cosa? Per i soldi..». Quegli avvertimenti diventano rumorosi e clamorosi il 7 febbraio del 2020, in pubblica udienza a Reggio Calabria, al processo sulla ’ndrangheta stragista.

“Madre Natura” va all’attacco di Berlusconi: «Da latitante l’ho incontrato per tre volte». L’ultima, precisa, nel dicembre del 1993, quindi un mese prima del suo arresto a Milano e in coincidenza della famosa “discesa in campo”. Continua Graviano: «Con Berlusconi abbiamo cenato insieme..a Milano 3 in un appartamento..». Poi spiega che all’imprenditore sono finiti i soldi di suo nonno materno Filippo Quartararo: «Li aveva messi nell’edilizia al nord». Gli avvocati di Silvio annunciano querele a raffica.

Giuseppe Graviano

Giuseppe Graviano non è un pentito e non è un imputato qualunque, è un mafioso, anzi è il mafioso che più di ogni altro – insieme a Riina – quelle stragi le ha volute. È un mago nel mescolare il vero e il falso, giocoliere delle mezze parole. Così si arriva fino al novembre scorso, quando lo interrogano nel carcere di Terni e, per la prima volta, risponde alle domade dei magistrati. Anche lui adesso vuole dissociarsi, il suo obiettivo è uscire dal carcere. In un modo o in un altro. Nonostante le stragi. Nonostante gli ergastoli.

Gli altri due, Berlusconi e Dell’Utri, non aprono più bocca. Neanche un soffio. Anche perché a Marcello, dopo la condanna definitiva a 7 anni per concorso esterno, gliene arriva un’altra a 12 anni in primo grado nel processo di Palermo sulla trattativa stato-mafia. In Appello però assoluzione piena. E così pure in Cassazione, «per non avere commesso il fatto».

Sono i conti con il passato, con la mafia il passato ritorna sempre. Ma non saranno certo solo i processi e le sentenze a ricostruire questo pezzo di brutta storia italiana. E non saranno solo i pentiti – o quei veggenti come il gelataio Savatore Baiardo amico dei Graviano – a offrirci risposte definitive a una domanda, che è sempre la stessa: con quali capitali Silvio Berlusconi ha preso il volo a metà degli anni Settanta, fu decisiva la mafia siciliana o è solo una favola? Berlusconi avrebbe potuto liberarsi più volte da quel sospetto, avrebbe potuto fornire più di una spiegazione dal giorno che lo “stalliere” Vittorio Mangano ha trovato affettuosa accoglienza ad Arcore. Ma non l’ha mai fatto.

Nemmeno il 26 novembre del 2002, quando il presidente Leonardo Guarnotta trasferisce la corte di Assise di Palermo a palazzo Chigi per ascoltare il capo del governo nel primo processo contro Dell’Utri. Il testimone Silvio Berlusconi resta zitto, si avvale della facoltà di non rispondere. Di quella trasferta romana il presidente Guarnotta ricorda ancora oggi due dettagli che in realtà non sono dettagli. Il silenzio di Silvio Berlusconi. E un mappamondo, in bella vista lungo il corridoio che conduce nello studio del premier, «un mappamondo ancora senza le Americhe».

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