L’ultimo guanto di sfida agli alleati Albin Kurti lo lancia dall’aula del parlamento kosovaro. La comunità internazionale e la missione Nato in Kosovo (Kfor) tacciono dinanzi a un atto di aggressione di Belgrado ai danni di tre agenti di polizia kosovari sequestrati dalle forze di sicurezza serbe.

Per di più sul territorio del Kosovo, in violazione della sovranità dello stato e del diritto internazionale. «Il loro silenzio non contribuisce alla de-escalation, né alle indagini, né alla giustizia» è il j’accuse del premier kosovaro in quello che è l’ultimo capitolo di una crisi di cui, per ora, non si intravede la fine.

Una crisi scoppiata con l’insediamento nei quattro comuni a maggioranza serba nel nord del Kosovo – Mitrovica Nord, Leposavic, Zubin Potok e Zvecan, di sindaci di etnia albanese, espressione di un voto boicottato dalla popolazione serba. L’escalation, culminata negli scontri di Zvecan con il ferimento di 30 soldati Kfor, ha conosciuto poi un momento di tregua per dar tempo alla diplomazia di ricucire lo strappo. Bruxelles e Washington scelgono la linea della fermezza: piegarsi alle richieste per una de-escalation immediata o affrontare le conseguenze di una mancata collaborazione.

Dettare le condizioni

Ha gioco facile la Serbia. La sola condizione per Belgrado è il ritiro dell’esercito dal confine, schierato dal presidente Aleksandar Vucic in risposta al contestato insediamento dei sindaci nei comuni del nord. Vucic risponde a metà, ordinando il ritiro parziale dei militari.

Più complessa la trama ordita per Kurti a cui viene richiesto di ritirare le forze speciali dal nord del Kosovo, indire nuove elezioni nei quattro comuni con il coinvolgimento della popolazione serba. Intanto, limitarsi a far lavorare i sindaci eletti in sedi lontane dagli edifici municipali. Il premier kosovaro è in un angolo. La controrisposta è un piano in cinque punti che fa perno principalmente sul ripristino dello stato di diritto nel nord del Kosovo.

In altre parole: i facinorosi, la milizia fascista che fa capo a Belgrado, devono essere consegnati alla giustizia. Poi viene tutto il resto: nuove elezioni amministrative e ripresa del dialogo con la Serbia.

Le sanzioni

Per l’occidente è chiaro chi dei due che cerca lo scontro. Il verdetto è senza appello. Il Kosovo, già espulso dall’esercitazione militare Nato a guida americana, Defender 2023, all’indomani degli scontri di Zvecan, viene sanzionato dall’Ue. Non misure restrittive in senso stretto, si affretta a chiarire Bruxelles, ma provvedimenti temporanei e reversibili che vanno dalla sospensione di visite e contatti di alto livello al congelamento della cooperazione economica con Pristina.

«Sanzioni ingiuste» controbatte il Kosovo che prima arresta un serbo, Milun Milenkovic-Llune, ritenuto uno dei principali responsabili degli scontri di Zvecan, e poi accusa Belgrado di aver sequestrato tre agenti di polizia kosovari sul proprio territorio. Ricostruzione, nemmeno a dirlo, diametralmente opposta a quella fornita da Belgrado: le forze di sicurezza serbe hanno arrestato i tre al di là del confine, per quello che viene chiamato un atto terroristico.

Nel groviglio kosovaro, emerge un paradosso: l’occidente sembra pendere dalla parte di Vucic, autocrate e alleato di Vladimir Putin, a scapito di Kurti, premier di un paese con standard democratici più solidi e allineato alle posizioni di politica estera della comunità atlantica.

Il “nemico” Kurti

Perché Kurti è finito nel mirino di Washington e Bruxelles?

«È una tipica situazione coloniale. Ha una veste moderna, ma resta una situazione coloniale». Correva l’anno 2007. Un giovane Kurti, ex prigioniero politico ai tempi del regime repressivo di Slobodan Milosevic, guidava la protesta contro il piano di Martti Athisaari, ex presidente della Finlandia, incaricato dall’Onu di redigere un rapporto sullo status finale del Kosovo.

La ricetta prevedeva l’indipendenza dell’ex provincia serba sotto tutela internazionale. Il piano si scontrò con quello che un articolo del New York Times dell’epoca descrive come il «grido di un lupo solitario per la libertà del Kosovo». Il bilancio delle proteste fu di 2 morti e 82 feriti, il leader ribelle scontò quattro mesi di carcere per averle guidate.

Ferocemente anti imperialista, Kurti sognava un Kosovo pienamente indipendente. Indipendente dalla Serbia, ma anche dalla comunità internazionale, Stati Uniti in primis. Un Kosovo libero di scegliere se confluire o meno in quello che per Kurti è il naturale sbocco per il paese: l’unificazione con l’Albania.

L’unificazione con l’Albania

Il suo slogan è tutto riassunto nel nome del partito che è riuscito a portare alla guida del Kosovo: Vetevendosje, “autodeterminazione”. Quel lupo solitario, divenuto nelle tante stagioni della sua vita il “Che Guevara dei Balcani” per la sua lotta per l’indipendenza e per le sue posizioni socialdemocratiche, si è progressivamente imposto all’opinione pubblica come la speranza di un cambiamento. La chiave di svolta è qui. La sola carta della piena indipendenza era destinata a fallire in un paese che considera Stati Uniti e Nato come i liberatori dalla tirannia serba. E in parte, ci aveva pensato la Storia a fare il suo corso: nel 2008 Pristina proclamava l’indipendenza da Belgrado con una dichiarazione unilaterale. Un’indipendenza zoppa, riconosciuta solo da metà degli stati al mondo. Tra gli altri, mancano all’appello la Serbia, cinque stati dell’Ue e soprattutto Russia e Cina, membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu che bloccano tuttora l’adesione di Pristina alle Nazioni unite.

Pulizia etnica pacifica

Bisognava allora fare uno salto di qualità: la nuova missione di Kurti era liberare il paese da chi lo aveva trasformato in un buco nero di corruzione, i signori della guerra. Ossia gli ex guerriglieri dell’Esercito di liberazione del Kosovo che avevano occupato le leve di comando del paese fino a soffocarlo in una rete clientelare che ha ostacolato lo sviluppo economico del newborn dei Balcani.

Kurti, che negli anni aveva portato la protesta nelle aule parlamentari con tanto di lancio di gas lacrimogeni, è riuscito nell’impresa tre anni fa. Un governo durato quanto un battito d’ali: nel pieno della pandemia, è stato spodestato con un colpo di mano dietro cui si celavano gli Stati Uniti di Donald Trump alla ricerca di una pax balcanica imperniata sullo scambio di territori tra Belgrado e Pristina.

La pulizia etnica pacifica, come fu ribattezzata dal New York Times, prevedeva lo scambio della valle di Presevo, regione serba a maggioranza albanese, con il nord del Kosovo, a maggioranza serba. Kurti non era il solo a opporsi: è stata soprattutto la Germania di Angela Merkel a ostacolare i piani di Washington. L’ipotesi di giungere a un accordo simile era bastata da sola a far tremare l’intera regione.

Ed è così che Kurti è ritornato al potere, forte di un ampio consenso elettorale. Tanto forte da indispettire gli altri autocrati che pullulano nei Balcani: da Vucic al premier albanese, Edi Rama, con cui il leader ribelle avrà rapporti ondivaghi. L’invasione russa dell’Ucraina gli ha spalancato una possibilità: chiudere i conti con la Serbia una volta per sempre. E magari passare alla storia come il Davide che sconfigge Golia.

Kurti cerca di convincere gli alleati che il Kosovo è l’Ucraina, la Serbia è la Russia. Un’equazione che si è finora rivelata un calcolo sbagliato. Per l’occidente, scosso dalla guerra, l’imperativo è scongiurare l’apertura di un secondo fronte nei Balcani. Per farlo, è il ragionamento, occorre togliere a Mosca la sua leva politica più forte nei Balcani, l’annosa questione del Kosovo, e ancorare Belgrado fermamente all’integrazione euro-atlantica. Al costo delle contraddizioni che ciò comporta. E quelle contraddizioni Kurti è deciso a sbatterle in faccia ai suoi alleati, al costo di fare il gioco di Putin. Convinto forse che il prezzo da pagare valga bene l’indipendenza agognata.

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