Il governatore della Liguria, Giovanni Toti, è rimasto in silenzio davanti al giudice durante l’interrogatorio di garanzia: si è avvalso della facoltà di non rispondere e non ha nemmeno rilasciato dichiarazioni spontanee. Per lui ha parlato ai giornalisti il suo avvocato, Stefano Savi: «Stiamo leggendo le carte», e «la settimana prossima chiederemo di farci interrogare. Dopo chiederemo la revoca dei domiciliari».

La strategia del presidente, dunque, è di procedere con freddezza e razionalità, anche a costo di aspettare una settimana in più per studiare bene le 700 pagine di ordinanza prima di prendere iniziative. Con la linea difensiva già di fatto delineata, però, di rifiutare l’accusa di corruzione e di rivendicare di «avere svolto una attività politica alla luce del sole e tutta tracciata. Non ha avuto un vantaggio personale, non c’è stato un uso privato».

Eppure, al netto degli aspetti giuridici, un cambio di toni rispetto al giorno dell’esecuzione della misura cautelare c’è stato. Se nelle prime ore il messaggio era stato che «il presidente non pensa alle dimissioni», ora – sempre per voce del suo legale – Toti ha fatto sapere che «sta pensando alle dimissioni, ma è una decisione da prendere confrontandosi con la maggioranza».

Un percorso quasi inverso, invece, ha fatto proprio il governo di centrodestra. Nei primi giorni si era percepita una prudente presa di distanze e la linea di Fratelli d’Italia era stata quella di «dare tempo» – si è parlato di un mese, il tempo per far esprimere il tribunale del riesame in caso di ricorso – al governatore di chiarire la sua posizione prima di ragionare di dimissioni.

Solo alcuni ministri, con in testa il ministro della Giustizia Carlo Nordio, avevano espresso le loro perplessità sull’iniziativa della procura di Genova. Ora, al contrario, il fronte dell’esecutivo si è fatto granitico nel difendere Toti, sollevando dubbi sull’operato dei pubblici ministeri e in particolare sui tempi con cui sono state disposte le misure cautelari.

Crosetto, Musumeci e Nordio

Il più duro nell’attaccare le toghe è il vicepremier Matteo Salvini, che sin da subito aveva posizionato la Lega in difesa del governatore ai domiciliari. Venerdì 10 maggio, durante il suo tour di presentazione del libro, ha detto che «se ogni indagato si dimette l’Italia si ferma domani» e ha aggiunto che «vorrei sapere se ci fossero microspie negli uffici di qualche magistrato, per quanto tempo continuerebbe a fare il magistrato».

Prima di lui era stato il ministro della Difesa, Guido Crosetto, a sottolineare che «sta alla Procura provare le proprie tesi e non a lui la sua innocenza», «invece ho l’impressione che ci sia, in questa vicenda, scarso interesse di ricerca della verità». E ancora «la carcerazione preventiva non nasce come strumento di intimidazione o per aumentare l’audience di un’inchiesta». In altre parole, i magistrati si sarebbero mossi in modo da massimizzare l’attenzione mediatica intorno a un’inchiesta in realtà cominciata nel 2020, in cui la richiesta di misura cautelare era ferma da fine 2023.

Sulla vicenda si è speso anche il solitamente silente ministro per la Protezione civile e politiche del mare, Nello Musumeci, che non ha usato giri di parole: «A venti giorni dalle elezioni europee e da una consultazione amministrativa particolarmente vasta, questo provvedimento qualche dubbio lo alimenta», ed è «da trent’anni che la magistratura avanza in spazi non suoi».

Sul caso è ritornato anche il guardasigilli Nordio, che era stato il primo a sollevare dubbi di tempistiche. Da Venezia, dove si sta svolgendo il G7 della Giustizia, ha di nuovo parlato «come magistrato», per dire che «sostenere che sia l’indagato a dimostrare la sua innocenza è una bestemmia in una civiltà democratica» e «la nostra parola d’ordine è l’enfatizzazione della presunzione di innocenza».

Sabato 11 il ministro sarà al congresso nazionale dell’Anm: la tana del lupo dove delineerà la sua riforma costituzionale su separazione delle carriere e spacchettamento del Csm in due, con un’Alta corte per il disciplinare. Tra le toghe, le dichiarazioni in cui ha messo in discussione la tempistica dei domiciliari a Toti sono schioccate come una frustata e non hanno contribuito ad alleggerire un clima già di forte contrapposizione.

Il presidente Giuseppe Santalucia ha già detto che «non ci sarà contrattazione sindacale» e che le toghe non intendono sedersi al tavolo, perché «ci sono contrarietà culturali e costituzionali» e «non c’è da trovare una soluzione mediana». In attesa dell’arrivo del ministro, nel giorno di apertura del congresso i magistrati hanno accolto con una standing ovation il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che è anche presidente del Csm. Un applauso che è anticipatorio: le toghe si appelleranno al capo dello Stato per chiedere la salvaguardia della loro autonomia e indipendenza.

Eppure, al netto delle grane di Via Arenula, sull’indagine ligure tre indizi fanno una prova: tre ministri di FdI hanno fatto muro davanti a Toti, mettendo in discussione l’operato della procura. La premier Giorgia Meloni continua a rimanere in silenzio con l’obiettivo di tenere il suo nome il più lontano possibile dalla vicenda, ma le dichiarazioni sono state troppe per non immaginare una regia dall’alto.

Le parole del legale di Toti hanno comunque aperto una nuova fase: il governatore non esclude più le dimissioni, ma intende discuterne con i vertici della maggioranza. La scelta, insomma, dovrà essere condivisa, come anche la responsabilità politica. L’obiettivo è quello di rimanere ben ancorato nel centrodestra, non permettendo a nessuno di fargli il vuoto politico intorno.

Se Toti terrà duro e non lascerà la regione, anche se sospeso per l’effetto della legge Severino, lo farà solo con la certezza di avere il sostegno del governo, e lo stesso varrà anche in caso di passo indietro. In ogni caso, nessun partito della maggioranza potrà chiamarsi fuori o circoscrivere la scelta a una valutazione di opportunità personale.

© Riproduzione riservata