C’è un documento riservato nascosto in Vaticano che riscrive – almeno in parte – la storia dell’inchiesta che sta terremotando da un anno e mezzo la Santa sede. E che spiega pure cosa potrebbe aver causato l’improvviso raffreddamento del rapporto tra papa Francesco e il suo segretario di Stato, il cardinale Pietro Parolin. Un allontanamento culminato con la defenestrazione dalla commissione cardinalizia dello Ior avvenuta lo scorso settembre (è la prima volta che il capo del Palazzo apostolico non è presente nell’organismo di controllo della banca di Dio) e, più di recente, con lo spostamento definitivo del tesoro custodito dalla segreteria di Stato nelle casseforti dell’Apsa, l’organismo che amministra i beni del piccolo stato teocratico.

È vero che la marginalizzazione dell’ex dicastero chiave d’Oltretevere e del ruolo di Parolin è figlia della riforma economica voluta dal pontefice, basata sulla centralizzazione degli investimenti vaticani nell’ente presieduto da Nunzio Galantino. Ma è certo che sia anche conseguenza delle inchieste penali che hanno travolto la segreteria di Stato, l’ex sostituto Angelo Becciu, alcuni dipendenti e imprenditori come Gianluigi Torzi e Raffaele Mincione.

Indagini che hanno al centro lo scandalo del palazzo londinese di Sloane Avenue, l’immobile comprato dalla segreteria di Stato con 200 milioni provenienti anche dall’Obolo di San Pietro che avrebbe creato un buco da «oltre cento milioni» (questa l’ultima stima ipotizzata dai promotori di giustizia) nelle casse vaticane, e arricchito speculatori criminali e monsignori forse da loro corrotti.

La lettera segreta

Ora il Vaticano aveva chiarito, attraverso gli atti dell’accusa, che l’investigazione era cominciata il 2 luglio 2019. In seguito a una denuncia formulata dal direttore generale dello Ior Gianfranco Mammì. Un dirigente laico vicino a Francesco insospettito da una improvvisa richiesta arrivata dal sostituto Peña Parra un mese prima. Attraverso una missiva al presidente dell’istituto Jean-Baptiste de Franssu, il ministro dell’Interno vaticano chiedeva infatti alla banca un prestito da ben 150 milioni di euro, per non meglio precisate «ragioni istituzionali».

Un’istanza assai anomala che – hanno scritto i pm – avrebbe dato il la alla denuncia di Mammì (concordata con il papa, ça va sans dire) e alla scoperta dell’intero scandalo londinese e dei suoi protagonisti.

A un anno e mezzo dalla prima discovery, il documento permette di aggiungere un tassello importante alla ricostruzione dei fatti. Perché evidenzia che anche Parolin conosceva benissimo l’operazione londinese, tanto che il 4 marzo 2019, con lettera intestata «riservata-urgente» a de Franssu, fu proprio lui a chiedere per la prima volta il finanziamento milionario. Che doveva servire ad estinguere un mutuo considerato troppo oneroso che la Segreteria di Stato aveva contratto con la Cheney Capital dopo che – quattro mesi prima – aveva comprato da Mincione tutte le quote del palazzo controllato.

«Illustrissimo signore», scrive Parolin su carta intestata protocollando la missiva «(...) considerato che nel tempo sono stati fatti alcuni validi investimenti, collocati in paesi esteri, ma non di facile liquidabilità e con profitto nel medio periodo, si rende necessario un rifinanziamento che consenta di tutelare il patrimonio e rispetti anche il carattere di riservatezza. L’andamento dei mercati di queste settimane suggerisce di non utilizzare la liquidità esistente per attuare operazioni a copertura degli investimenti, ma di acquisire liquidità aggiuntiva. Per questo motivo si richiede a codesto istituto l’erogazione di un finanziamento di 150 milioni di euro da ottenere in tempi brevi. Detto finanziamento potrà prevedere una scadenza biennale e l’istituto percepirà una remunerazione annuale allineata a quella che il mercato internazionale prevede per i finanziamenti di pari scadenza erogate dalle autorità sovrane di Stato con un rating AAA. Le sarò grato se vorrà dare un positivo riscontro a questa istanza che risponde alle superiori esigenze della Santa sede».

Il documento è clamoroso. Non solo perché Parolin definisce l’investimento voluto da Becciu «valido» e da «tutelare», come da tutelare «la riservatezza» dello stesso. Ma anche perché la data della nota e altri rapporti inediti della Funzione compliance dello Ior segnalano che Mammì, i suoi dirigenti e quelli dell’Aif hanno lavorato all’affaire per mesi, prima che il direttore generale (d’accordo con il papa) decidesse di far saltare tutto e di presentare una formale denuncia penale.

Mammì vs Peña Parra

Parolin è infatti il primo ministro vaticano, e inizialmente de Franssu e Mammì scattano sull’attenti. Fonti autorevoli del Palazzo apostolico raccontano che dopo la lettera del governante i vertici dello Ior informano subito della richiesta l’Autorità di informazione finanziaria, l’organismo antiriciclaggio che ha potere di vigilanza sulla banca (ma non, per statuto, sulla segreteria di Stato) per chiedere la fattibilità dell’operazione.

Per mesi l’Aif, guidato al tempo da René Brülhart e Tommaso Di Ruzza, entrambi silurati dopo lo scoppio dello scandalo con accuse assai discutibili, lavora a stretto contatto con Peña Parra e Mammì, indicando loro (tre sono le lettere firmate da Brülhart in persona) come il prestito fosse formalmente fattibile, anche perché lo Ior in quel momento aveva sufficiente liquidità, ma richiedendo un’adeguata verifica in merito alle normative antiriciclaggio.

È l’aprile 2019, e tutti gli attori in campo sanno ormai di Sloane Avenue, e che i soldi richiesti servono per estinguere il mutuo di Cheney troppo dispendioso. Anche il papa, naturalmente, viene messo al corrente. Tutto sembra filare liscio. Fino a quando a maggio, mentre gli uffici tecnici dello Ior stanno lavorando al piano di rientro da far sottoscrivere a Parolin e al sostituto, Mammì pretende da Peña Parra di mandare allo Ior un’altra lettera. Nella quale la richiesta del prestito sia firmata direttamente da lui: il sostituto per gli Affari generali ha deleghe operative, questa la tesi di Mammì, e l’istanza di Parolin non è dunque sufficiente. Ecco la genesi dell’epistola («sottoscritta per ratione officii», dicono i pm) che Pena Parra manda a de Franssu il 4 giugno, a cui seguirà pure una terza il 19 giugno, nella quale il sostituto chiarisce allo Ior nero su bianco la vicenda del mutuo.

È allora che i rapporti tra Peña Parra e Mammì cominciano a logorarsi. La trattativa sul prestito da 150 milioni prosegue comunque. Tanto che il 27 giugno una relazione firmata dai tecnici della compliance dello Ior dà il via libera a «un’operazione che in sé appare economicamente motivata».

Il 29 giugno i vertici della banca salgono a Pazzo Apostolico con i dettagli del piano di rientro del finanziamento, che sembra a un passo dall’approvazione. L’incontro sarà invece l’ultimo: Mammì due giorni dopo cambia improvvisamente idea, e denuncia tutto l’affaire ai promotori di Giustizia. Motivo principale: «l’opacità» delle lettera di Peña, dove non si «non specifica il beneficiario delle somme».

Ma come mai la lettera di Parolin non è stata mai citata nelle ricostruzioni e nelle carte dei promotori di giustizia? Certamente rispetto ai reati ipotizzati contro Mincione, Torzi, il banchiere Enrico Crasso e il minutante Fabrizio Tirabassi la vicenda non è rilevante. Ma il documento imbarazza, perché chiarisce meglio la genesi dell’inchiesta, il fatto che il braccio destro del papa considerava «validi» gli investimenti di Becciu (che lo stesso Parolin stesso definì «opachi» sei mesi dopo). E perché permette di evidenziare come dietro lo scandalo si nasconda una lotta di potere tra uomini riferibili alla prima cerchia di Francesco.

Intanto mentre si aspettano nuovi sviluppi dell’inchiesta penale l’Apsa guidata da Galantino e dal segretario Fabio Gasperini lo scorso settembre ha replicato nella sostanza esattamente quanto voleva fare Parolin quasi due anni prima. Accendendo nuovi finanziamenti per circa 150 milioni di euro con banche straniere, estinguendo il mutuo con Cheney e proteggendo l’investimento londinese di Sloane Avenue. «Parolin aveva ragione, è stato ingiustamente umiliato», dicono dalla terza Loggia. Ma in Vaticano, dopo i pasticci finanziari, sono i laici a dettare legge: piaccia o meno, il papa della curia (soprattutto italiana) non si fida più.

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