Sono in tanti a parlare di questione morale, a volte a sproposito, riferendosi a Enrico Berlinguer. Il segretario del Pci pose per la prima volta la questione dopo il devastante terremoto dell’Irpinia, quando prese un’iniziativa politica molto forte e annunciò la proposta dell’alternativa democratica, perché i governi di solidarietà sostenuti dall’esterno dal Pci erano naufragati per volontà della Dc, che dopo l’atroce morte di Aldo Moro aveva rovesciato la linea politica dello statista democristiano ed era giunta alla conclusione che era necessario introdurre la pregiudiziale anticomunista.

Il nocciolo del problema

Berlinguer tra il 1980 e il 1981 sollevava, prima con Reichlin su L’Unità e poi con Scalfari su Repubblica, la questione della Dc, partito che «ha governato per trent’anni ma che si è confuso in buona parte con lo stato». I partiti oggi «sono soprattutto macchine di potere e di clientela». Il passaggio successivo è ancora più forte: «I partiti hanno occupato lo stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal governo». Ecco perché «la questione morale, nell’Italia d’oggi, fa tutt’uno con l’occupazione dello stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti».

Il cuore del ragionamento politico era nell’affermazione prima riportata: «I partiti hanno occupato lo stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal governo». A chi dobbiamo pensare in questo aprile 2024? È evidente che il pensiero va a Giorgia Meloni, presidente del Consiglio e presidente di Fratelli d’Italia. Il malvezzo dei capi partito di diventare presidenti del Consiglio era cominciato con Berlusconi, Meloni ha la grave responsabilità di aver seguito questa strada.

La questione morale, cioè l’occupazione dello stato da parte dei partiti, è sopravvissuta a Berlinguer e si è incarnata nella destra politica italiana da Berlusconi a Meloni. Il cuore della questione morale nell’èra berlusconiana e in questo inizio di governo di Meloni sta tutto dentro la destra. Per questo Giuseppe Conte, sollevando la questione morale e ponendola in capo al Pd ha, secondo me, commesso un errore. E lo ha fatto perché, al di là delle sue intenzioni, ha messo al riparo la destra, questa destra meloniana che si sta accaparrando tutto con una voracità mai vista nella storia repubblicana, e ha spostato il baricentro sul Pd, quasi che la questione morale sia solo un problema giudiziario, di uomini che hanno rapporti con la mafia, di corrotti che chiedono voti pagandoli. E invece a me pare che la questione sia esattamente al contrario: è la crisi dei partiti, Pd compreso, a generare questi mostri.

Doppio standard

Ci sono due questioni, una romana, l’altra pugliese, che meritano un commento. Ci fu un tempo in cui il presidente dell’assemblea capitolina di Roma, Marcello De Vito, e prima Raffaele Marra e Luca Lanzalone, tutti dei 5 stelle, furono arrestati. Virginia Raggi era sindaca di Roma, Luigi Di Maio capo politico del movimento, e Giuseppe Conte al suo primo incarico di governo con la Lega. Nessuno di loro parlò di questione morale, e De Vito non fu cacciato dal movimento.

Veniamo alla Puglia e alla regione dove Conte ha ritirato la sua delegazione in giunta. Solo una consigliera regionale, Antonella Laricchia, non partecipò alla maggioranza di Michele Emiliano criticando i metodi del presidente. Perché Conte, che sapeva da tre anni dei metodi più che discutibili di Emiliano di allargare le alleanze ad libitum con i cambiacasacca, è rimasto in giunta e solo ora ha fatto uscire i suoi? C’è una domanda anche per Schlein. Nessuno dei dirigenti locali o nazionali pugliesi l’ha avvertita di quanto stava accadendo? Ecco, questo doppio standard di Conte non convince, così come non convince la foga dell’attacco al Pd diretto da Elly Schlein, criticata all’interno del suo partito e fuori di esso per la sua politica unitaria verso i Cinque stelle, al punto da essere accusata di subalternità verso il movimento, e impegnata a rinnovare il partito facendo fuori cacicchi e capibastone. La segretaria ha vinto le primarie mentre i circoli avevano indicato un altro nome. In queste condizioni è difficile fare in un anno tutto quel che si è promesso di fare, a meno di non possedere la bacchetta magica o di trasformare il Pd in un partito personale.

Un’ultima considerazione. C’è chi ha sostenuto che tutto quel che è successo nasce dalla volontà di Conte di ribaltare i rapporti di forza per tornare a essere lui il presidente del Consiglio. Ambizione legittima e non disdicevole, ma c’è modo e modo di raggiungere questo obiettivo, tenendo conto del fatto che di solito tra i due litiganti il terzo gode. E il terzo è già pronto a godere.

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