Non se ne avrà a male Elly Schlein se un vecchio istinto centrista e democristiano suggerisce per il momento di accostarla allo spettro di George McGovern, candidato democratico sconfitto da Richard Nixon nel lontano 1972. Candidato degno, a tratti anche suggestivo. Sconfitto da un presidente che due anni dopo avrebbe lasciato la Casa Bianca inseguito dalla giustizia e dalla furia popolare. E assurto infine a simbolo di quel radicalismo di sinistra che secondo una lettura prudente e magari anche un po’ conformista esclude si possa vincere guadagnando al centro i voti che mancano dall’altra parte per fare maggioranza.

Ora, Schlein potrebbe facilmente ribattere che anche Obama partì da una posizione, diciamo così, laterale. Eppure ebbe ragione alle primarie di Hillary Clinton, assai più centrista e istituzionale di lui. E di lì, ottenuta la nomination democratica, si arrampicò fin sulla Casa Bianca, suscitando il consenso degli americani e l’ammirazione di tanti giovani di tutto il mondo. Una dei quali, peraltro, era proprio l’attuale segretaria del partito democratico.

Ridurre l’establishment

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Dunque può darsi che la vecchia filosofia centrista si riveli anche in questo caso piuttosto obsoleta. Tanto più che la scalata di McGovern nei ranghi del partito democratico cominciò sotto il segno di un’innovazione non priva di saggezza e di prudenza. Egli ebbe la meglio su aspiranti candidati che non erano tanto più al centro di lui, da Humphrey a Muskie a Ted Kennedy, ultimo fratello della dinastia iconica del progressismo a stelle e strisce. E prima ancora aveva combattuto come pilota di bombardieri nei cieli della Germania nazista. Come a dire che il suo pacifismo sul fronte vietnamita, fulcro della sua campagna elettorale, non sconfinava affatto nell’irenismo. Tanto più se si considera che lui stesso aveva votato la risoluzione proposta da Johnson sul Golfo del Tonchino, pietra miliare della strategia bellicista di pochissimi anni prima.

Ma soprattutto McGovern fondò la sua candidatura sul lavoro che gli era stato affidato per modificare i caratteri e le regole della vita del suo partito. Lavoro che lui indirizzò soprattutto verso una riduzione del peso dell’establishment tradizionale, verso la valorizzazione delle primarie e verso un significativo ampliamento delle rappresentanze che allora erano più marginali: donne, giovani, afroamericani. Tant’è che la sua campagna cominciò sotto il segno di una vera e propria “leva McGovern”, come fu chiamata allora. E cioè di un democratico arruolamento nelle file dell’asinello democrat di una gran quantità di outsider che avrebbero cominciato da lì la loro scalata verso i cieli tempestosi dell’impegno politico.

Allargare la rappresentanza

E qui, appunto, si può ravvisare almeno una comune intenzione tra lo zio americano e la nipote italiana. Cioè lo sforzo di allargare i ranghi della rappresentanza, di mobilitare segmenti elettorali dormienti e soprattutto di cingere d’assedio i fortilizi del professionismo politico presidiati fin lì dai custodi delle più antiche tradizioni. Infatti la campagna di McGovern partì con un certo slancio, e sulle prime parve perfino insidiare le certezze repubblicane in cerca di riconferma. Tanto più che la guerra in Vietnam rendeva a quel punto scivoloso anche il cammino del presidente uscente, che pure quattro anni prima era prevalso dando a intendere che da quel pantano lui sapeva meglio degli altri come uscirne.

Insomma, non era detto che il destino cinico e baro avrebbe consegnato McGovern alla sconfitta. Anche se poi, il suo bottino elettorale si limitò alla conquista di due soli stati dell’unione, inchiodandolo a quel punto ad una di quelle disfatte che finiscono per diventare a loro modo leggendarie. Sia pure una leggenda negativa e forse un po’ immeritata. Neppure riscaldata, qualche mese dopo, dalle fiamme del Watergate che avrebbero presto bruciato i sogni di gloria del suo avversario repubblicano.

Il caso di Elly Schlein, si dirà, è ben diverso. Ella può confidare che il radicalismo della parte opposta le apra qualche varco per conquistare i voti di mezzo. E può scommettere sul fatto che i grandi cambiamenti di mentalità e di costume (anche politico) da cui siamo attraversati offrano al suo partito una di quelle occasioni che magari rovesciano i canoni più stanchi delle previsioni politiche più ovvie. Senza contare che alle sue spalle si stagliano, anche dentro casa sua, figure politiche sufficientemente attempate e sufficientemente furbe da indicare qualche strada e qualche pertugio che conduca non troppo lontano da un elettorato che un tempo si sarebbe detto “moderato”. La stessa eclissi del terzo polo, infine, consegna a Schlein un’opportunità che non è affatto detto che vada sprecata.

Occorrerebbe però che la nuova leader del Pd riuscisse a prendere meglio le misure di quel vasto mondo che oggi sta alla finestra, e neppure si perita più di andare a votare. Gente che magari non si affida volentieri alla destra meloniana, ma si tiene altrettanto lontana da una sinistra troppo incline a fermarsi sulla soglia delle proprie parole d’ordine più identitarie. Fino a scivolare verso quell’alternativa tra maggioranza silenziosa e minoranza rumorosa che in genere porta gran fortuna alla prima e ben poche possibilità alla seconda. 

Contro McGovern Nixon si affidò appunto alle risorse della “silent majority”, come si diceva allora. E contro Schlein Meloni si è già posizionata sulla trincea della conservazione. Parola non troppo suggestiva se vogliamo, eppure elettoralmente non priva di una sua fascinazione popolare in un paese come il nostro.

La mossa del cavallo

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Occorrerebbe allora che Schlein facesse la mossa del cavallo. E cominciasse a cercare parole d’ordine capaci di scuotere lo scetticismo dell’elettorato più tradizionale. Rassicurandolo e trovandogli posto in una carovana che per il momento appare guidata  – fin troppo – dal miraggio delle suggestioni più tipiche di una sinistra fatta di piazze, di bandiere, di frontiere ancora troppo lontane dal senso comune.     

Forse alla nuova leader del Pd servirebbe la disinvoltura non sempre così encomiabile di John Kennedy, pronto a scendere a compromessi con i poteri più opachi del suo tempo; e attento a non spaventare mai più di tanto l’elettorato quasi razzista degli stati del sud. Piuttosto che l’adamantino radicalismo di McGovern in cerca di nuove suggestioni lungo la frontiera della sinistra di quei suoi anni ormai remoti.

Si dirà che il tempo è dalla sua. E che finora le parole e i gesti non le hanno precluso – non ancora, perlomeno –  la possibilità di sfondare al centro. Per ora la battaglia si combatte sulla frontiera tra il vecchio e il nuovo, e sotto questo profilo Schlein non può che spingere sul pedale dell’acceleratore disboscando una giungla di potentati la cui luce s’è spenta da tempo e il cui ingombro risulta ai più insopportabile. Poi, però, si apriranno nuovi fronti. E lungo quei fronti Schlein dovrà essere più fantasiosa e meno canonica di come si è raccontata, ed è stata raccontata, almeno fin qui.

Un’analisi storica più attenta e magari anche più comprensiva del “berlusconismo” giunto al suo epilogo. Una più acuminata severità verso quanti, anche dalle sue parti tendono a vedere il mondo con le antiche categorie identitarie, e in qualche caso di identità non proprio memorabili. Una qualche maggiore indulgenza verso sentimenti più conformisti infastiditi e/o impauriti da un eccesso di radicalità. Un minimo di riguardo verso il tradizionalismo, che non sempre è oscurantismo – anzi. Insomma, una capacità di smarcarsi dai cliché che la vogliono assimilare al manicheismo tipico di una sinistra d’antan. Ecco, forse Schlein avrebbe bisogno di dosi non troppo massicce, ma neppure irrilevanti, di tutto questo. E cioè tutto quello che il vecchio McGovern nel lontano 1972 non le avrebbe mai consigliato.

Non è detto però che lei intenda consigliarlo a sé stessa. 

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