Se la politica sia una diligenza trainata da cavalli non troppo bizzosi o invece un ottovolante che trascina ora verso la sommità e ora verso l’abisso è una questione che secoli di osservazione non hanno saputo dirimere. Lasciandoci così qualche volta in compagnia di cocchieri prudenti e qualche altra volta invece affidati ai movimenti più erratici e frenetici di una giostra impazzita.

Di certo, chi è salito sull’ottovolante ha finito per respirarne l’ebrezza e può aver considerato le discese a vite come il prezzo che era giusto pagare per le trionfali salite di un attimo prima. Così da aver guadagnato in un colpo solo il diritto di emozionarsi per i propri successi e anche per le proprie cadute. Metafora dietro cui si possono intravedere molte delle sagome di questo secolo e di quello appena prima. E dalle nostre parti, le fattezze orgogliose e un po’ baldanzose di Matteo Renzi.

Come quel generale siciliano che spronava i suoi soldati in battaglia esortandoli ad essere “la valanga che sale”, anche Renzi è stato a suo modo una valanga. Sia nel salire che nel discendere. A suo tempo sì è preso un partito, che all’epoca era il più forte di tutti. E l’ha reso (momentaneamente) ancora più forte, portandolo a percentuali che non si ricordavano da più di un trentennio prima. S’è preso un governo, subito dopo. E s’è preso già che c’era anche una riforma istituzionale che sembrava il punto più alto della sua parabola, e infatti è stato anche il punto d’inizio di una discesa altrettanto vorticosa.

In ognuna di queste prese, chiamiamole così, c’era un grande talento tecnico. Tant’è che la maggior parte dei suoi critici di oggi erano gli ammiratori di ieri, quasi estasiati dalla sua destrezza e velocità, e invidiosi dei suoi giochi di prestigio e di quella sua singolare prontezza di riflessi. Salvo abbandonare appena possibile la postazione del servo encomio e dedicarsi subito dopo a un oltraggio non troppo coraggioso.

Nel frattempo lui, l’interessato, mostrava di compiacersi tanto dell’applauso di prima quanto dei fischi di dopo. Quasi convinto che il talento non debba mai coincidere più di tanto con la popolarità, e che sia semmai la controversia a sottolineare il merito. Con il che si verrebbe finalmente a colmare il divario tra i successi di una volta e le sconfitte della volta dopo.

Nixon il rottamatore

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Tutta questa parabola tra il prima e il dopo, le discese ardite e le risalite per dirla con il solito Battisti, ricorda un altro leader di controverso talento che s’era affermato mezzo secolo prima dall’altra parte dell’oceano: Richard Nixon. Anche lui un outsider, cresciuto in una periferia sociale, culturale e geografica. Anche lui un combattente tenace e capace. Anche lui un uomo di grandi visioni e di piccole furbizie. Un gigante che apriva alla Cina le porte del mondo, con una decisione di cui ancora oggi tutti dovremmo essergli grati. E un ometto, se così si può dire, che ingarbugliava le carte, registrava i colloqui, dava corda alle forze più oscure che un po’ tifavano per lui e un po’ tifavano contro gli altri.

Quel presidente sarebbe assurto a metafora di una politica spregiudicata, imperiale, priva di princìpi. L’uomo da cui nessuno avrebbe mai comprato un’automobile usata, come si diceva al tempo. L’imbroglione, addirittura. Eppure capace di affermarsi con talento e tenacia, di risalire la china, di vincere a valanga elezioni su elezioni. E di proiettare tutto questo sullo sfondo di una visione geopolitica di cui i suoi detrattori e i suoi antagonisti erano del tutto privi. Un grande, insomma. Nel bene e nel male.

Credo si siano fatti beffe dell’establishment, tutti e due. L’uno in nome di un’America profonda che reclamava i suoi diritti al cospetto degli intellettuali blasonati e dei salotti altolocati. L’altro in nome di una novità che voleva fare irruzione nei luoghi proibiti fin lì custoditi da una nomenklatura attempata. Forse non tutta questa rappresentazione è così autentica. Ma in entrambe si intuisce il gusto della sfida per la sfida. Quasi una sorta di oltraggio riservato ai propri avversari. Tutti rigorosamente malsopportati da entrambi. E tutti pronti a ricambiare, con in più gli interessi dovuti.

C’è di tutto in questa sciarada. Il gusto delle battaglie condotte con un certo grado di cattiveria, il compiacimento per aver spiazzato gli avversari e magari perfino deluso i seguaci, l’amore per la controversia, la diffidenza sparsa a piene mani, fino a non fidarsi troppo neppure di se stessi. Insomma la definizione di caratteri che si prestano volentieri alla demonizzazione e rifuggono da tutti i canoni. A cominciare da quello dell’ipocrisia, ma anche da quello delle buone maniere. Tipico vezzo degli outsider.

La ricerca dell’ostilità

Tra tante somiglianze, c’era però un solco a dividerli. E cioè il fatto che a Nixon tutti quei nemici in armi destavano un briciolo di apprensione, anche quando la forza, il rango e il potere militavano tutti dalla sua parte. Mentre a Renzi quella cerchia di ostilità sembra invece quasi far piacere, o almeno compiacerlo del riguardo malizioso che gli oppone. C’è da capirlo. Uno affrontava i poteri forti del paese più forte del mondo. E l’altro i poteri incerti di un paese più ondivago. E qualche volta i poteri vili di un paese a la carte.

Resta il fatto che entrambi hanno fatto i conti con il rischio. E dal rischio hanno tratto molta energia. In loro ha agito una spregiudicatezza degna di miglior causa. Ma che appare quasi giustificata – quasi – dalle avversioni con cui si sono dovuti misurare, tutti e due. Come a voler essere infine plasmati dai loro nemici più ancora che dai loro disegni.     

La loro parabola insegna e racconta. Ci avvisa che ogni carriera politica ha bisogno di talento e di furbizia. Ma che le due cose andrebbero tenute in sapiente equilibrio. Ci ricorda che i nemici sono essenziali alla riuscita di un’impresa. Ma che l’impresa dovrebbe anche avere un respiro maggiore della controversia che suscita. Ci insinua il dubbio di essere stati nei loro confronti o troppo benevoli o troppo pregiudizialmente contrari. Mentre la politica avrebbe forse bisogno di svolgersi su di un registro meno manicheo di quello che il loro talento da un lato e le loro zone d’ombra dall’altro costantemente hanno richiamato.

Nixon si è confrontato con Kennedy e Mao. Renzi con D’Alema e Letta. La scala, s’intende, non è la stessa. E il gioco delle somiglianze si ferma sulla soglia delle imprese dell’uno e dell’altro. Lasciando a tutti il dubbio se la maggiore verità sia nelle cose che sono riusciti a fare o invece nelle cose che infine hanno disfatto. Anche di sé stessi, viene da dire.

Non è chiaro alla fine quale sia la risposta più giusta. Né se sia la stessa per tutti e due.      

    

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