All’uscita della riunione del centrosinistra, negli uffici del Pd a Montecitorio, Enrico Letta fa capire che è pronto al conclave: «La proposta che facciamo è di chiuderci dentro una stanza e buttiamo via le chiavi, pane e acqua, fino a quando arriviamo a una soluzione, domani (cioè oggi, ndr) è il giorno chiave».

Le destre prendono tempo prima di rispondere. Oggi è il giorno della terza chiama. Ma domani è quello della quarta, la prima con elezione a maggioranza assoluta. Ieri, alla fine di un pomeriggio lunghissimo, la “guerra delle rose” salta.

La terna giallorossa, pronta ad essere opposta a quella presentata alle quattro e mezza dal centrodestra, sparisce. Il metodo dei tre nomi contro i tre alla fine non convince. Alla riunione per i dem ci sono Enrico Letta, Debora Serracchiani, Simona Malpezzi; per M5S Giuseppe Conte, Davide Crippa e Maria Domenica Castellone; per Leu Roberto Speranza, Federico Fornaro e Loredana De Petris.

Poco prima, quando si sparge la voce della “guerra delle rose”, molti dirigenti Pd storcono il naso. «Il metodo del centrodestra non credo sia il più agevole», dice per esempio il ministro Andrea Orlando. E il capogruppo di Leu alla camera Fornaro: «Apprezziamo le proposte delle destre, ma se stiamo cercando una proposta condivisa dobbiamo sederci a un tavolo e vedere se ci sono nomi condivisi e condivisibili».

Propongono dunque di chiudersi in una stanza e restarci fino a che non esce il papa, dunque. Come nel conclave di Viterbo del 1268: i cittadini stanchi dei cardinali che da tre anni mangiavano a sbafo e discutevano a vuoto, li chiusero nel palazzo palale, e smontarono il tetto. Fu eletto subito papa Gregorio X.

I giallorossi vergano una nota congiunta: la terna delle destre «è un passo in avanti, utile al dialogo». Ma i tre nomi – Letizia Moratti, Marcello Pera e Carlo Nordio – evidentemente sono bocciati. Stavolta non con le parole tranchant che nei giorni scorsi aveva usato Letta. Stavolta sono «scelte legittime» ma «non riteniamo che su quei nomi possa svilupparsi la larga condivisione».

Ma la volontà di raggiungere una «soluzione condivisa su un nome super partes» resta, e per questo arriva l’invito «a un incontro tra due delegazioni ristrette». Si apra il fatidico tavolo. Si smorza l’eco dei malumori fra il segretario Pd e il presidente M5s, che negli ultimi giorni ha strizzato troppo l’occhio a Salvini. La fase degli incontri «bilaterali» sarebbe finita. Almeno a parole.

Del resto che Moratti, Pera e Nordio non avessero alcuna chance di finire nelle schede delle prossime chiame per il voto del presidente della Repubblica è chiaro da subito. Tre nomi, uno voluto dalla Lega, uno da Forza Italia e uno da Fratelli d’Italia, tutti e tre descritti in conferenza stampa come vicini «culturalmente» e non targati politicamente.

Matteo Salvini, ormai nei panni di leader della coalizione, si rivolge agli avversari ma anche alleati di governo: «Non siamo qui a imporre niente a nessuno. Speiamo che vengano accolti con voglia di dialogo». Pochi minuti dopo dal Transatlantico Letta tende la mano: «Quelli del centrodestra sono nomi di qualità e li valuteremo senza spirito pregiudiziale».

Ma a sinistra nessuno dei tre nomi è papabile. E non lo è neanche quello della presidente del senato Maria Elisabetta Casellati, che il tam tam di palazzo dà come la «carta coperta» delle destre: a palazzo Madama gli scontri fra il Pd e l’avvocata berlusconiana sono incisi già negli annali. Casellati non farebbe il pieno neanche dei suo colleghi forzisti. «Se mi chiedono di votare un doppio cognome mi trasferisco in Svizzera», scherza un senatore azzurro, ma metà del gruppo lo seguirebbe.

Invotabile anche l’altra «carta coperta» delle destre, Franco Frattini, presidente del Consiglio di Stato ed ex commissario europeo. A lui il Pd contesta un eccesso di tenerezza verso l’autocrate russo Putin. Così Letta la mattina, parlando della crisi ucraina alla tv Cnbc, chiede per il Colle un «profilo chiaramente atlantista».

Casini, politica contro

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Il problema è che nel Pd c’è chi lavora su un nome «vero», quello di Pier Ferdinando Casini. Che infatti viene tenuto il più possibile fuori dal tritacarne mediatico. Su di lui le destre tengono una curiosa moderazione.

«Casini oggi non è un rappresentante della destra», dicono per esempio Tajani e Salvini. Una frase che sembra lasciare un margine perché l’ex presidente della camera venga considerato un profilo «super partes»: più che altro per essere stato in tutte le «partes» nel corso dei suoi 38 anni consecutivi da eletto (è attualmente il parlamentare di più lungo corso), centro, destra e da ultimo sinistra.

«Una parte dei Cinque stelle lo apprezza molto», secondo il senatore Udc Antonio De Poli. Ieri alla Camera Casini non è riuscito a dribblare i cronisti. Ma forse non ha voluto, per non dare l’impressione di crederci troppo. Per lui spinge da sempre Matteo Renzi, e con cautela – viene raccontato – anche il ministro Dario Franceschini, il capocorrente Pd che fin qui meno aveva dissimulato la sua mancanza di entusiasmo verso l’ipotesi di eleggere Draghi al Colle.

Casini non dispiace anche a quella corrente di pensiero dem, trasversale ma anche di sinistra, che nelle scorse settimane aveva inseguito il sogno di eleggere il giudice costituzionale Giuliano Amato, convinta che Berlusconi lo avrebbe appoggiato in virtù di un’antica preferenza.

Politici contro tecnici

Casini ieri ha postato una foto di lui 22enne a un congresso della Dc: «La passione politica è la mia vita». Non è una frase buttata là. In queste ore nelle file di Forza Italia e della Lega circola un’improvvisa inedita irrefrenabile voglia di riscatto della politica contro i «tecnici», come il drappo rosso da agitare contro le ambizioni quirinalizie di Draghi, e contro la sua pretesa – così viene descritta – non solo di commissariare i partiti ma anche di traslocare al Colle promuovendo al suo posto a palazzo Chigi un ministro tecnico (Vittorio Colao era il predestinato).

Ma non è Casini, dicono a mezza bocca alcuni dei convenuti alla riunione nelle stanze del Pd, il nome che il centrosinistra domani calerà sul tavolo. Gli stessi che non credono dall’altra arriverà il nome della presidente del senato Casellati. Anche se al senato circola il nome della renziana Teresa Bellanova per la presidenza che rimarrebbe vuota. «Non è il momento del muro contro muro», dice Conte. E nessuno crede che il centrodestra forzerà la mano: «Credo sia fantasioso pensare che si compia una lacerazione in un momento in cui nessuna coalizione ha da sola la maggioranza assoluta», ragiona il ministro Orlando, mentre il secondo spoglio si conclude con 527 schede bianche, «andando a cercare l’ultimo voto e poi il giorno dopo non succede niente. Senza nessun meccanicismo, ma dire che non succederà nulla mi sembra abbastanza improbabile».

Tradotto: un’elezione a colpi di maggioranza spaccherebbe la maggioranza di governo. E per eterogenesi dei fini, chi dice di voler tenere Draghi a palazzo Chigi in realtà lo spedirebbe a casa. Sempreché, naturalmente, Draghi non decida diversamente, e in proprio.

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