Accusato di tergiversare, di alimentare dubbi e incertezze, di avere persino rallentato il passo della lunga marcia del governo sul Piano nazionale di ripresa e resilienza; tirato per la giacchetta da quelli che apertamente gli chiedono di restare a palazzo Chigi – ogni giorno qualche leader politico ripete la litania, ieri era il turno di Carlo Calenda e Giuseppe Conte – e dall’altra parte da quelli che invece provano a scommettere sulla sua ascesa al Quirinale – come Enrico Letta e Giorgia Meloni – Mario Draghi decide di stringere i tempi. L’intenzione del presidente del Consiglio è di tenere la conferenza stampa di fine anno il prossimo 22 dicembre, quindi alcuni giorni prima dei suoi predecessori che avevano aspettato gli ultimi giorni di lavoro delle camere per presentare il bilancio dell’anno di fronte ai cronisti parlamentari.

L’ufficialità non c’è ma la notizia trapela dalle presidenze delle camere, che nelle scorse ore sono state preallertate. L’ultima conferenza di fine anno di Giuseppe Conte è stata il 30 dicembre dell’anno scorso nell’elegantissima Villa Madama: il presidente del Consiglio tentava disperatamente di restare a galla mentre si sentivano i rulli di guerra arrivare dal senato. Di lì a poche settimane il suo governo si era sgretolato. Ancora Conte, ma in versione gialloverde, nel 2018 si era presentato alla stampa il 28 dicembre. Stessa data nel 2017 per il presidente Paolo Gentiloni, e un giorno dopo, il 29 dicembre, in quel drammatico 2016 in cui Matteo Renzi aveva lasciato palazzo Chigi dopo la pesantissima sconfitta referendaria.

Per prassi il premier si presenta alla stampa dopo che la legge di Bilancio è stata approvata. Quest’anno il calendario della Camera ufficialmente prevede le date tra il 20 e il 23 dicembre. Ma è probabile che il sì finale slitti più avanti perché al Senato in commissione il testo sta andando al ralenti. Forza Italia ancora ieri insisteva sul rinvio selettivo delle cartelle esattoriali, e il nodo delle risorse è tutt’altro che sciolto. La legge dovrebbe dunque approdare in aula solo il 21 dicembre – non il 19 come previsto – e il 23 dovrebbe essere votata la prima fiducia.

Dal Senato prevedono che alla Camera arriverà intorno al 27 e la fiducia sarà votata il 30, mentre palazzo Madama inizia l’esame del Recovery plan. Il calendario non è indifferente. Ma Draghi potrebbe convocare la conferenza stampa prima della conclusione dell’iter della manovra. Intanto perché non si prevedono colpi di scena. E il bilancio del suo anno a palazzo Chigi gli è già chiaro.

Prima per andare

Ma qui le interpretazioni divergono. C’è chi da questa accelerazione trae la certezza che il presidente del Consiglio troverà il modo di annunciare la chiusura del ciclo del suo impegno a palazzo Chigi. Chi invece scommette sul significato opposto: preso atto dell’impossibilità di essere eletto al Quirinale senza rischiare di essere disarcionato, Draghi potrebbe disegnare la road map del Pnrr nel corso del 2022, e quindi rassicurare le forze politiche – e il paese – della sua permanenza a palazzo.

Che è poi quello che chiede la maggioranza dei leader politici in questi giorni. Ma nessuno sembra conoscere davvero le intenzioni del presidente del consiglio. E centrodestra e centrosinistra si avvitano sui conflitti interni. Lega e FdI non sono convincenti quando promettono di sostenere Berlusconi nella corsa verso il Colle.

E infatti Giorgia Meloni è più preoccupata di legittimarsi come futura leader, presentandosi come “conservatrice” e mettendo enfasi sul dialogo con il segretario del Pd Enrico Letta. Che a sua volta, nel tentativo di arginare Matteo Salvini, ostenta simpatia per la presidente FdI e spiega di volerla includere in una manovra ampia per eleggere Draghi al Quirinale, evitando tentennamenti che potrebbero azzoppare l’attuale premier.

Salvini vede il tentativo di isolarlo e a sua volta prova a dare l’idea di lavorare alacremente a una soluzione per il Colle: «Stiamo lavorando, a differenza di Letta, senza parlarne coi giornalisti».

A sinistra le cose non vanno bene. Dopo la figuraccia al collegio 1 di Roma (domani il Pd romano ufficializzerà il nome della candidata), c’è un filo di freddo fra Letta e Conte. L’alleanza giallorossa sarà anche «ineluttabile» (copy Dario Franceschini) ma è sempre più ristretta.

Il presidente dei M5s è intanto impegnato in un recupero di immagine. Ieri all’agenzia Adnkronos ha assicurato di avere in programma un incontro con Draghi «presto, prestissimo», ma il punto è che resti a palazzo Chigi: «Ognuno può avere le opinioni che ritiene, ma in questo momento il premier è un elemento di equilibrio del governo e del sistema governo-Italia. Quindi, chiaramente spostare Draghi da quella posizione è una cosa che va valutata in tutte le implicazioni. Non è una cosa che si può pensare lascerà del tutto senza conseguenze».

Le «conseguenze» sono una: il voto anticipato. Parola però impronunciabile in parlamento. Tantomeno fra gli scranni del M5s. In queste ore si assiste al progressivo sdoganamento di qualsiasi nome purché garantisca «stabilità», anche Pier Ferdinando Casini e l’ex detestatissimo Giuliano Amato.

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