«Un atto d’amore del presidente verso la libera stampa». In una nuova giornata campale per i contagi – ieri 26.109 nuovi casi e 123 morti – ma anche per la babele politica, a più voci da palazzo Chigi viene spiegata così, con maliziosa ironia, la decisione di convocare la conferenza stampa di fine anno il prossimo 22 dicembre.

Una scelta d’anticipo, diversa da tutti i recenti precedenti. Quel giorno la manovra non sarà ancora approvata; quel giorno, o il giorno prima, si terrà un Consiglio dei ministri. Mario Draghi vuole parlare di cose concrete. Ed evitare di essere trascinato per trentacinque domande sul solo e unico tema del Quirinale.

La partita del Colle è iniziata troppo presto. Il vero fischio di inizio doveva arrivare il 4 gennaio con la convocazione del primo voto dei grandi elettori; e il primo voto non può arrivare prima del 18 o meglio il 19 gennaio perché bisogna aspettare la proclamazione del deputato o della deputata vincitrice delle suppletive al Collegio 1 a Roma.

Quello che è in corso è dunque un confusionario prepartita. Segnato, ieri, da due macigni politici. Sergio Mattarella è andato in Vaticano da papa Francesco per la sua «visita di congedo». Poi, nel pomeriggio, davanti al Corpo diplomatico, ha porto «un saluto di fine anno» che «è anche l’occasione di un commiato». Non c’è nulla, ormai, che autorizzi a pensare che potrebbe accettare la rielezione.

L’altro macigno è il giudizio dell’Economist sull’Italia «paese dell’anno». Dopo il Financial Times arriva dunque un altro auspicio “pesante” che Draghi non scelga «il più cerimoniale» ruolo di presidente della Repubblica lasciando spazio a «un primo ministro meno competente».

Molti parlamentari si sono scatenati ad accodarsi alla preghiera. Ma siamo allo stallo. Matteo Salvini annuncia entro fine anno la convocazione del tavolo dei leader. I vecchi naviganti della politica guardano l’iniziativa con bonaria sufficienza. «Non c’è nessuno che possa fare da “king maker”. Quel tavolo è viziato», spiega per esempio Clemente Mastella, «lì tutti i leader rappresentano sì e no la metà dei propri gruppi parlamentar. O è Draghi al primo turno o l’incognita è totale».

La durata della legislatura è solo uno dei busillis. Giorgia Meloni ha un altro problema e ormai apprezza apertamente il presidente: «Draghi ha il vantaggio di poter interloquire alla pari con tutti in Europa», ha ammesso alla Coldiretti. La leader di Fratelli d’Italia punta a diventare la prima premier donna italiana, ma per farlo – lei, l’amica di tutti gli euroscettici – ha bisogno dello scudo di Draghi al Quirinale. Dallo stesso schieramento risponde Antonio Tajani, forzista tendenza Salvini, rilanciando sempre meno convintamente Silvio Berlusconi.

È stallo anche a sinistra, dove Enrico Letta e Giuseppe Conte provano a farsi forza l’un l’altro. Il presidente M5s è in minoranza nel suo stesso partito; circola la notizia di un’iniziativa di Luigi Di Maio su un nome del centrodestra, «uno bravo e con i numeri». Il segretario dem invece ha fornito il suo identikit del presidente: «non un leader politico», «deve avere caratteristiche di terzietà», «deve essere un protagonista del dialogo con l’Europa».

A dispetto del coro del “Draghi resti a palazzo Chigi”, se si uniscono i puntini si staglia il profilo di Draghi. Per salvare la legislatura, ragiona un deputato molto vicino a Letta, «si può immaginare un governo di scopo con tre punti programmatici: portare avanti il Pnrr, fare la legge elettorale, combattere la pandemia».

A palazzo Madama un senatore di lungo arriva alla stessa conclusione: «Se Mattarella dice di no al suo bis, il presidente è Draghi. Ma se si va avanti con questo caos non chiuderemo nessuna operazione». Senza Draghi a palazzo Chigi cadrebbe il governo? «Dipende dalle forze politiche. Altrimenti scegliamo Casini, mandiamoci lui al posto di Draghi e poi spiegheremo ai mercati internazionali la nostra scelta. Come?»

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