Cesare Salvi da senatore ha eletto un presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, nel 1992. «Ero appena entrato in parlamento. Ma facevo parte della segreteria del Pds, il Partito democratico della sinistra. Ricordo come il mio partito decise di votarlo. In realtà i nomi in ballo erano due, Scalfaro e Giovanni Spadolini, dopo la tragedia di Capaci e il ritiro di Giulio Andreotti e Arnaldo Forlani». Il capo del Pds era Achille Occhetto. «Uscì dalla stanza perché era stato chiamato al telefono. Poi tornò e disse: “Mi ha chiamato Eugenio Scalfari (fondatore e allora direttore di Repubblica, ndr) e mi ha detto che bisogna votare Spadolini. E questo mi ha convinto definitivamente che dobbiamo votare Scalfaro”. Scherzava, ma fino a un certo punto».

Cesare Salvi è stato ministro del Lavoro nei governi D’Alema e Amato, ed era fra i leader del “correntone” Ds. Corrente, oggi si direbbe area, che nel 2007 entra nel Pd e invece si butta a sinistra in attesa della deflagrazione del neonato partitone. Che però non arriva.

Arrivano invece gli insuccessi della sinistra. Nel 2011 partecipa alla Sinistra arcobaleno, che non rientra in parlamento. Lui prosegue con l’associazione Socialismo 2000 dentro la Federazione della sinistra, con Prc e Pdci. Tutte sigle che non ci sono più. In questi giorni ha pubblicato Dal Pci al Pd. Brevi note sulla scomparsa della sinistra italiana (Rogas Edizioni). Un saggetto, quasi un pamphlet, un catalogo degli errori delle sinistre, da Enrico Berlinguer a oggi.

10/04/2008 CHIUSURA DELLA CAMPAGNA ELETTORALE DELLA SINISTRA L'ARCOBALENO NELLA FOTO CESARE SALVI

Lei è stato ministro degli anni in cui Silvio Berlusconi era il nemico numero uno della sinistra ma anche un collante efficacissimo per tenerla insieme. Che pensa dell’ipotesi che l’ex cavaliere sia eletto al Colle?

Anche solo la possibilità che accada è il coronamento di una sconfitta della sinistra. Al di là del giudizio sulla persona. Nel centrodestra c’è un’aggregazione maggioritaria che può persino esprimere una personalità come quella di Berlusconi nella sua nuova veste di padre della patria come potenziale capo dello stato. Fino a poco fa sarebbe stato impensabile. Ai tempi miei ci sarebbero stati già i girotondi al Quirinale.

Non ci sono più i girotondi di una volta.

Purtroppo neanche quelli. Per fortuna mi sembra improbabile che Berlusconi vada al Colle.

Secondo lei dovrebbe andarci Draghi?

Io lo metterei sette anni al Quirinale. Mi sentirei più garantito come italiano. E servirebbe anche alla destra, a cui se dovesse vincere, farebbe da ammortizzatore in Europa. Tanto prima o poi bisognerà votare, no?

Il centrosinistra storicamente non propende per il voto. Come nel 2012 con il governo Monti. Ma voi della sinistra radicale già non eravate più in parlamento.

Il governo Monti fu decisivo, fece da levatrice di tutti i populismi. E la sinistra si buttò con entusiasmo nell’esperienza. Con entusiasmo votò la legge Fornero, il fiscal compact, poi quando finalmente si tornò a votare, Bersani fece la campagna elettorale sostanzialmente in nome dell’agenda Monti, facendo capire alla gente che si continuava con le politiche di rigore. I Cinque stelle sono nati così. Allora il presidente Napolitano aveva fatto Monti senatore a vita, ma non si era obbligati a obbedire a quel che fa capire il presidente della Repubblica. Oppure lo si può fare ma per pochi mesi, se la situazione era così drammatica. Ma così era chiaro che ci sarebbe stata l’esplosione dei Cinque stelle. E l’inizio del tracollo del Pd.

E però nel 2005 con il costituzionalista Massimo Villone lei aveva scritto «Il costo della democrazia. Eliminare sprechi, clientele e privilegi per riformare la politica», che poi ha ispirato le bibbie dell’antipolitica.

E no. Il nostro era un libro contro l’antipolitica. Poi l’argomento fu ripreso dal libro molto fortunato di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo, La Casta, ma lì i toni erano già cambiati. Quello che sarebbe successo per noi era già chiarissimo: la personalizzazione della politica, la ricerca del potere in modi spregiudicati, gli sprechi. Purtroppo non ci fu una reazione del sistema politico, a cominciare proprio dalla sinistra. Volevamo sollecitarla, presentammo anche una serie di disegni di legge. Non ci ascoltò nessuno.

Cosa pensa dell’abolizione del finanziamento dei partiti?

Un errore clamoroso di cui purtroppo è responsabile Letta. Fece addirittura un decreto legge, ancora mi chiedo perché il presidente della repubblica Napolitano glielo firmò. Letta pensava di acquisire popolarità. Ma la politica costa, e uno che vuole farla in larga scala come fa? Non a caso c’è un po’ dappertutto in Europa. Come l’altro errore clamoroso che facemmo, quello della riforma del Titolo quinto della Costituzione, sperando di togliere spazio alla Lega.

Draghi assomiglia a Monti?

No, Draghi assomiglia a Ciampi, perché ha un’attenzione al sociale, sta distribuendo soldi, sul modo si può discutere. Vero è che il quadro è tutto diverso. Ma Monti non è il precedente.

Anche se Draghi fu il cofirmatario, con Jean-Claude Trichet, della lettera della Bce che ci impose il rigore, e di fatto aprì la strada a Monti.

Quella lettera fu micidiale. Ma la gente cambia, persino Andreas Papandreou (ex leader del greco Pasok, ndr) è cambiato.

Lei è stato ministro del Lavoro con Massimo D’Alema, che accogliendola nel governo le disse “ah Jospé, facce vedé”, paragonandola scherzosamente a Lionel Jospin, l’allora primo ministro del governo della gauche plurielle francese. Il vostro centrosinistra, vittorioso per due volte e per due volte caduto per una rottura interna, è la ragione per cui la sinistra non ha più vinto?

Intanto D’Alema non ha mai fatto quella battuta. Un giornalista se l’è inventata. Con D’Alema discutevamo, certo, ma poi trovavamo una soluzione. Quanto al centrosinistra, la vittoria fu tale solo per modo di dire. Perché la prima volta nel 1996 vincemmo ma con la destra divisa e con Rifondazione con un piede dentro e uno fuori. E la seconda volta fu più un pareggio, più che una vittoria. Resta il fatto che quel centrosinistra aveva ancora un’attenzione sociale. E comunque l’Italia è un pezzetto di mondo, erano gli anni in cui il liberismo era l’ideologia dominante, era difficile resistere. L’errore del Pd è stato di non aver capito quando quel ciclo stava finendo, nel 2007, con la crisi, mentre il partito nasceva. I premi Nobel dicevano di cambiare indirizzo, in Italia non si capì. Il Pd non doveva rinunciare alle sue basi, che dovevano essere la tradizione socialdemocratica da una parte e il cristianesimo sociale dall’altro. Ma la storia di questi due movimenti è stata disattesa nella prassi di governo.

Il Pd avrà fatto tanti errori, ma è un partito al 20 per cento, uno dei più grandi partiti socialdemocratici d’Europa.

Il Pds del 1994 era al 21. Ma certo la trasformazione dei partiti in Italia è particolarmente accentuata, più che in Francia e più che in Germania, dove le tre grandi famiglie, quella socialdemocratica, quella cristiana e quella liberaldemocratica, sono ancora lì. Faccio gli auguri di buon lavoro a Letta che fa le agorà, ma il partito dovrebbe essere un’agorà permanente.

Lei non è entrato nel Pd. Ma è stato protagonista di una stagione di frammentazione della sinistra. Arcobaleno, Federazione della sinistra, e via dicendo. Sigle che in gran parte non esistono neanche più. E se la prende con il Pd, che con tutte le sue esecrabili scelte, comunque resta uno dei primi partiti d’Italia?

Non c’è dubbio, il nostro è stato un fallimento. Infatti ho deciso di tornare a fare il professore universitario. Ma questo non risolve il problema. Magari avessi fallito solo io o solo noi. Il Pd è l’unico punto di riferimento rimasto a sinistra. Ma da una ricerca dell’Ipsos emerge che la Lega ha il doppio dei consensi fra gli operai di tutte le sinistre. Il 27,8 del voto operaio contro il 12,4 del Pd. Si sapeva, va bene. Ma non si sapeva che anche Fratelli d’Italia ha il 17,7 per cento. C’è una scelta di fondo alla quale è chiamato il Pd: vuole ritornare nel mondo del lavoro, del precariato e della disoccupazione, o no?. Non basta la parola centrosinistra se non è collegata a una rappresentanza.

Insomma serve la “retropia”, lei sostiene con Zygmunt Bauman, il futuro sta nel ritorno al passato?

Sì, e non ho paura di dirlo. Diceva lo storico Tony Judt che un altro mondo è stato possibile. E oggi sarebbe necessario, con tutti gli aggiornamenti del caso, un ritorno alla centralità dei diritti sociali e dei diritti del lavoro. Dopo lo smantellamento progressivo negli ultimi trent’anni di tutta una serie di regole e garanzie, oggi la situazione è devastante. La materia non manca, faccio due esempi: il lavoro sommerso che è diventato lavoro servile, basta pensare alle campagne e alla gig economy; e la rappresentanza del lavoro, con il meccanismo dei contratti pirata che alcuni giudici cominciano a smontare. I “trent’anni gloriosi”, quelli del modello sociale europeo, dal 1945 al 1975, che poi sono stati progressivamente smantellati dalla globalizzazione liberista, a confronto dei nostri giorni sono un futuro a cui aspirare.

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