Sono trascorsi due mesi dal giuramento al Quirinale e il governo Meloni ha già posto quattro volte la questione di fiducia sui provvedimenti presentati in parlamento. Nelle ultime ore c’è stata una doppietta. Prima la fiducia chiesta alla Camera sul cosiddetto decreto Rave (che in realtà contiene anche misure sulla giustizia e sulla gestione del Covid), e poi quella posta alla Legge di Bilancio al Senato. Si è trattato, in questo caso, di un bis rispetto a quanto fatto poco prima di Natale a Montecitorio.

L’esecutivo, per cavarsi d'impaccio di un iter pasticciato della manovra economica, ha dovuto troncare il dibattito. Pochi giorni prima era stata messa la fiducia, per la prima volta dall’insediamento di Meloni e Palazzo Chigi, sul decreto Aiuti quater a Palazzo Madama.

Dicembre di fiducia

L’accelerazione è maturata negli ultimi dieci giorni: in precedenza nessun testo era stato blindato dall’esecutivo, solo perché non erano stati varati decreti. La legislatura era nella fase preliminare. Il dato è chiaro: appena il parlamento ha iniziato a esaminare i provvedimenti predisposti dal governo, ecco che è stato adoperato quello strumento tante volte criticato in passato da Fratelli d’Italia.

«Saltare il popolo»

«Per noi il Parlamento è importante, c’è la necessità di migliorare i provvedimenti», ricordava Francesco Lollobrigida nel ruolo di capogruppo alla Camera di FdI, all'epoca esponente di spicco dell’opposizione al governo Draghi. Era il settembre del 2021, quando il dirigente del partito di Meloni spiegava con enfasi: «Il ricorso alla fiducia distorce il processo legislativo naturale. Ricorrere a questo strumento significa saltare il popolo, segna un disprezzo per il popolo, e delegittima il sistema democratico».

Sembrano lontanissimi, poi, i tempi in cui Fratelli d’Italia, in riferimento alla compressione del dibattito sulla legge di Bilancio firmata dall’esecutivo di Draghi, annunciava una lettera da inviare al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, «come garante della Costituzione».

Il motivo? Fdi voleva informare il capo dello stato sul fatto che la manovra sarebbe stata approvata senza che il parlamento potesse discuterla. L’esecutivo in carica ha ricalcato gli stessi passi con un esame-lampo del provvedimento per gli avvitamenti interni. Una situazione che desta preoccupazione.

«Non è più rinviabile un intervento, anche a livello regolamentare, per impedire che la prassi sancisca oggettivamente la fine ingloriosa del ruolo del Parlamento persino sul provvedimento più importante dell'anno che è la legge di Bilancio», dice Riccardo Magi, deputato di +Europa, che parla di «un ulteriore e definitivo degrado nelle dinamiche istituzionali».

Soliti difetti

Sul decreto Rave, la maggioranza ha la scusante dell’ostruzionismo parlamentare delle opposizioni. D’altra parte la strategia delle minoranze è stata favorita dalla calendarizzazione del testo alla Camera, proprio in prossimità della sua decadenza, prevista per il 30 dicembre.

Cambiano alcuni fattori, ma l’esito resta lo stesso: si continua nel solco del «monocameralismo di fatto» in cui un ramo del parlamento esamina un decreto e lo invia all’altro che si limita a dare il via libera definitivo senza un reale confronto. E fa capolino di nuovo la cosiddetta ghigliottina, o tagliola, per limitare i tempi di discussione.

Il confronto con i predecessori

Il paragone con il passato può aiutare a inquadrare la situazione. Il governo Draghi è stato quello che ha posto più questioni di fiducia: 55 volte in meno di un anno e mezzo con una media di 3,2 al mese. Numeri che possono essere spiegati con una maggioranza eterogenea, che doveva essere tenuta insieme con il collante dei testi blindati.

Un problema che, sulla carta, Meloni non dovrebbe avere: la coalizione di governo è formata da partiti di centrodestra con una omogeneità della maggioranza che non si vedeva da tempo. Eppure lo stesso Draghi, che a un certo punto ha abusato dello strumento della fiducia, nei primi due mesi l’aveva posta in tre sole circostanze, una in meno rispetto a Meloni.

Come il Conte bis, molto di più dei gialloverdi

AP Photo/Alessandra Tarantino

Il ritmo dell’esecutivo in carica è in linea anche con il Conte bis, spesso criticato per il massiccio ricorso a questo meccanismo, ma che comunque aveva la motivazione dell’emergenza pandemica da affrontare. Lo ha fatto in 36 occasioni con una media di 2,25 al mese.

Il raffronto, infine, non regge con il primo governo presieduto dall’attuale leader del Movimento 5 stelle, quello giallo verde, che ha chiesto solo 15 volte, poco più di una ogni mese. Un ritmo decisamente più basso, nonostante una maggioranza che non era certo l’emblema della coesione.

© Riproduzione riservata