La storia d’Italia è piena di cicatrici, frutto di ferite aperte da eventi sociali e politici, nazionali e internazionali. Tra i colpi inferti alla giovane democrazia sin dagli inizi della sua storia si distinguono due tragici eventi di cui nelle prossime settimane ricorre l’anniversario.

Il golpe Borghese

L’8 dicembre del 1970 il “principe” Junio Valerio Borghese, criminale di guerra e comandante della X Mas, flottiglia che dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 aveva proseguito la guerra combattendo al fianco dei nazisti, tentava un colpo di stato.

Era l’acme della strategia golpista condotta nella penisola da frange neofasciste, componenti delle forze armate, della polizia, del mondo imprenditoriale e politico che temeva l’ingresso dei comunisti nell’alveo governativo.

Il 1970 e il tentativo, fallito, di Borghese era il prosieguo naturale delle manovre golpiste, mai del tutto chiarite che si erano dipanate nel 1964 a opera soprattutto del comandante generale dei carabinieri Giovanni de Lorenzo. E che avevano investito, sebbene indirettamente, anche il Quirinale e i rapporti del capo dello stato Antonio Segni con Aldo Moro. Il centro-sinistra e l’avvicinamento dei socialisti e delle sinistre alla Dc non era congeniale agli anti comunisti e agli atlantisti oltranzisti.

Piazza Fontana

La seconda data, ravvicinata alla prima, è quella, probabilmente assai più nota al pubblico, del 12 dicembre. Un anno prima dell’azione del criminale Borghese, nel 1969, nella sede della Banca nazionale dell’Agricoltura in piazza Fontana a Milano, un ordigno piazzato da esponenti di Ordine nuovo aveva provocato la morte di diciassette persone e il ferimento di altre ottantotto cui aggiungere un decesso avvenuto anni dopo per le ferite riportate.

Quel giorno era stata inaugurata in grande stile la campagna per promuovere la strategia della tensione. Una strategia stragista, con propaggini in decine di altri attentati – da Bologna nel 1980, a Peteano nel 1972, a Gioia Tauro nel 1970, a Brescia nel 1974 – che aveva un disegno criminale e soprattutto politico molto chiaro: reprimere l’ondata di manifestazioni, proteste studentesche, rivendicazioni operaie, movimenti sociali e culturali e scioperi, quest’ultimi considerati un disturbo per il buon andamento dell’economia.

Bloccare la protesta sociale

Il 1968 e l’autunno caldo avevano permesso ai deboli, agli emarginati, ai proletari di alzare la testa  (si pensi allo Statuto dei lavoratori) e questo non poteva essere accettato dai padroni, soprattutto se a guidarne l’azione era il duo Psi-Pci.

Il contesto internazionale certamente aizzava tendenze polarizzanti tra le parti e i mediatori erano considerati alla stregua di sospetti traditori. La violenza politica di una parte della contestazione era la conferma che si doveva tentare di tacitare quelle istanze sociali e politiche.

Il pomeriggio del 12 dicembre 1969 e l’esplosione dovevano essere prodromo alla “rivolta” della classe media, quella maggioranza silenziosa che, viste le crescenti tensioni sociali, avrebbe chiesto, o meglio accettato, una svolta autoritaria.

Il modello da seguire era quello dei colonnelli nella vicina Grecia, e le sistematiche mistificazioni e bugie seriali rivolte a indirizzare attentati e azioni di sabotaggio contro i “rossi” e gli anarchici, ordite da pezzi delle agenzie statali, ne erano lo strumento.

Lo scetticismo degli Usa e la forza sociale ed elettorale della sinistra hanno evitato una deriva e un esito sudamericano, con l’intervento dell’esercito a sancire una svolta autoritaria. Dunque, mentre l’estrema destra neofascista puntava alla strategia della tensione, Moro apriva alla «strategia dell’attenzione» verso la sinistra, per rendere la democrazia meno polarizzata. 

Il banco di prova per Meloni

Per il governo in carica si apre, da qui al 2 giugno prossimo, un rosario di celebrazioni che segnano la storia patria (quella vera). Sarà il banco di prova della volontà di Giorgia Meloni di uscire dalla ridotta del gruppo di amici/fratelli/camerati, e sganciarli dalla “foto di famiglia” del fascismo per portarli nell’epoca moderna, ovvero rimanere ancorata, prigioniera di un lessico da guerra civile mai conclusa.

La presidente ha una occasione importante per confermare, ribadire e rafforzare il propalato processo di normalizzazione della destra estrema italiana verso una posizione conservatrice. Per essere coerente con quanto enunciato nelle scorse settimane, nei passi istituzionali compiuti in Italia e all’estero e nelle dichiarazioni programmatiche in parlamento in occasione del voto di fiducia.

Meloni dovrebbe cogliere al volo l’occasione per le commemorazioni di due eventi storici cruciali per l’Italia. Viceversa, quel discorso complessivamente apprezzabile, seppur tra tornanti retorici ed elusioni/amnesie storiche, rischia di rimanere un proposito mancato, una opportunità persa nelle scelte di rottura lastricate di buone intenzioni.

Nel suo discorso pronunciato in occasione del voto di fiducia la premier aveva parlato di «una comunità di uomini e donne che ha sempre agito alla luce del sole e a pieno titolo nelle nostre istituzioni repubblicane, anche negli anni più bui della criminalizzazione e della violenza politica, quando nel nome dell'antifascismo militante ragazzi innocenti venivano uccisi a colpi di chiave inglese. Quella lunga stagione di lutti ha perpetuato l’odio della guerra civile e allontanato una pacificazione nazionale che proprio la destra democratica italiana, più di ogni altro, da sempre auspica». 

Ma chi ha contribuito a scrivere quel discorso ha omesso un punto e virgola, dopo il quale avrebbe dovuto ricordare i legami storici, storicizzati e documentati, di una cospicua fetta di uomini di Ordine nuovo – che uscivano ed entravano dal/nel Msi – che hanno tramato contro la Repubblica, piazzato bombe stragiste, accoltellato, sparato, ucciso, ordito trame golpiste, depistato, venduto l’onore, infiltrato, spiato, picchiato, occupato.

Anche con personaggi di primo piano quali Giorgio Almirante che, pure se in doppiopetto, rimaneva un mai pentito esponente di primo piano del fascismo e della tragicomica esperienza della maldetta “repubblica” di Salò, che di repubblicano non aveva nulla.

Le dichiarazioni del presidente del Senato Ignazio La Russa sul 25 aprile non sono rassicuranti a riguardo: senza quella data non ci sarebbe stato alcun 2 giugno. Leggeremo cosa scriveranno Meloni e i ministri del suo governo a proposito del 12 dicembre 1969 e dell’8 dicembre 1970. La matrice è chiara, chiarissima. Ritorni su quei passi, presidente, ed eviti un pasticcio.

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