«Non c’è cosa più amara che l’alba di un giorno in cui nulla accadrà», dice il poeta Cesare Pavese che negli anni Trenta di certo non pensava al Pd del 2022, ma che rischia di aver già scritto la sintesi della direzione di oggi. Sperando che non sia l’epitaffio. Non che i dirigenti Pd siano d’accordo su tutto, anzi. Ma complice la diretta streaming – dalle 10 sui social del partito – e lo sforzo titanico di Enrico Letta di evitare lo scasso generale, i toni della mitologica «analisi della sconfitta» saranno sorvegliati.

Non andrà in scena il processo al leader, che pure in molti avrebbero voglia di celebrare. Ma dopo la sconfitta politica del 25 settembre le richieste di «scioglimento» del partito sono piovute da sinistra e da destra. Il tema delle alleanze fallite – con M5s e con Carlo Calenda – taglia in due il corpo del partito, e si riproporrà presto alle regionali. Per non parlare della piazza che Giuseppe Conte ha lanciato sul tema della pace in Ucraina. Così i democratici fanno la parte di quelli che fanno quadrato. In realtà sono tutti indignati contro chi li invita ad autosciogliersi.

Ma è l’unica cosa che li unisce. Su tutto il resto le correnti sono divise in due blocchi: da una parte l’ala sinistra che chiede una «rifondazione» con dibattito approfondito e tempi lunghi; dall’altra Base riformista e il candidato in pectore Stefano Bonaccini che condivide ma chiede «tempi certi», tradotto primarie entro metà marzo. Il presidente dell’Emilia Romagna ha anticipato la sua posizione: lo scioglimento sarebbe «un regalo alla destra», ma serve una «rigenerazione».

La proposta di Letta

In mezzo c’è Enrico Letta. È sospettato dall’ala riformista di assecondare il ralenti che dà all’ala laburista il tempo di cercarsi un candidato al congresso. Non è vero, giurano dal partito: Letta voleva dimettersi, ma è stato pregato dai notabili di restare al suo posto per gestire (con loro) le trattative sui tavoli del futuro parlamento e garantire un avvio ordinato delle turbolenze post voto.

Oggi il segretario farà la sua proposta in quattro tappe, anticipata con una lettera agli iscritti: la direzione sarà «la prima tappa di una discussione politica per definire insieme il percorso che porta al congresso», che «non deve essere un appuntamento ordinario ma una vera occasione costituente». Al di là delle definizioni solenni, sono i tempi a mettere d’accordo tutti, ovvero a scontentarli tutti ma poco.

Per Letta serve «un tempo congruo, ma non si può arrivare alle calende greche». Obiettivo chiudere fra febbraio e marzo del 2023, dopo le regionali del Lazio, la prossima croce che il segretario dovrà prendersi sulle spalle (ieri ha incontrato uno dei candidati in pectore, l’assessore Alessio D’Amato). Alla fine si vota.

I chiamati e i cammellati

Punto delicato è la prima tappa, la «chiamata» dei non iscritti, che dovranno discutere della «missione costituente che parte dall’esperienza della lista Italia democratica e progressista». Lo schema è quello delle Agorà, ma stavolta chi c’è è invitato a iscriversi e a partecipare al congresso. Questa parte piace alla sinistra, che attraverso le nuove tessere – Articolo 1, associazionismo, terzo settore, Demos, Elly Schlein – punta a rinforzarsi in vista della conta nel partito e nei gazebo.

Dalla corsa, di qua, ieri si è sfilato il vicesegretario Peppe Provenzano, considerato un papabile. Altri uomini o donne al momento all’orizzonte non si vedono, se non il capocorrente Andrea Orlando, che resta il nome più probabile, anzi fin qui l’unico possibile. Sarebbe un ri-candidato: nel 2017 ha sfidato Renzi, e nei circoli ha preso il 20 per cento, contro il 70 del vincitore. Il nome del ministro però viene fatto anche per la vicepresidenza della Camera. Il puzzle delle cariche istituzionali è il sottotesto della discussione di oggi. Il lavorio è in pieno svolgimento. Il ministro della Difesa Lorenzo Guerini potrebbe andare alla presidenza del Copasir. Oppure Enrico Borghi, e il ministro fare il vicepresidente della Camera. Per l’omologo al Senato circola il nome di Franceschini. E qui arriva un altro punto dolente.

Un documento delle donne democratiche, ancora non ufficiale, chiede il rispetto della rappresentanza di genere in tutte le prossime tappe. Dopo tanta retorica sul femminismo, le liste hanno partorito gruppi parlamentari con una presenza femminile del 30 per cento; uno zero virgola in più del 2018. Fra le donne Pd il malumore del giorno dopo è forte. In molte promettono che a placarlo non basterà la conferma, in una prima fase, delle capogruppo di Camera e Senato, Debora Serracchiani e Simona Malpezzi, che rispondono anche a equilibri correntizi. Il documento sarà discusso in un’assemblea del 22 ottobre, ma oggi si faranno sentire. Dopo tutta la narrazione del partito femminista, Letta rischia di finire sotto accusa. Scherzi della sorte, corsi e ricorsi: proprio come accadde al suo predecessore Nicola Zingaretti all’indomani della nascita dell’esecutivo Draghi, quando il Pd inviò al governo tre ministri, tre uomini.

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