La «fase costituente del Pd», qualsiasi cosa ormai voglia dire questa formula fumosa sulla quale le correnti del Pd litigano – cambiare il Pd radicalmente ma non snaturarlo, rigenerarlo ma non rifondarlo –  andrà «oltre il congresso», «se c’è un consenso non posso che essere contento e accompagnare questo processo».

Enrico Letta non accende la telecamera, ha l’influenza, ma ha ascoltato e capito quello che in mattinata succede nella sala Sassoli, al terzo piano del Nazareno, la sede del Pd. Traducendo le parole, i segnali e gli avvisi e le omissioni, il confronto in diretta streaming e radiofonica fra un gruppo di autoconvocati e i tre candidati segretari ha concluso che il nuovo (e contestato) manifesto dei valori non sarà approvato dall’assemblea nazionale in scadenza, ma da quella nuova, dove il nuovo segretario – o la nuova segretaria, ma è meno probabile – avrà la maggioranza.

I tre hanno ricevuto in documento, «Per una vera fase costituente», e c’è l’introduzione del costituzionalista Stefano Ceccanti: «Bene il lavoro istruttorio del comitato», dice, «bene il lavoro referente che l’assemblea nazionale uscente, a fine mandato, potrà sviluppare e bene ancora il lavoro deliberante che dovrà svolgere l’assemblea neo-eletta, scelta con le primarie aperte». 

Cambiare ma con giudizio

L’occasione è apparecchiata da un gruppo di dirigenti preoccupati dal fatto che il  Comitato che lavora a riscrivere la carta dei valori non partorisca un testo che stravolge quello del 2008, figlio del Lingotto e dell’era veltroniana, ma anche – viene sottolineato – dei «giganti» fondatori come Pietro Scoppola e Giovanni Bianchi.

Cambiare si può, dunque, ma senza esagerare. I candidati, Stefano Bonaccini, Paola De Micheli e Elly Schlein sono stati invitati a prendersi un impegno.  «Va evitato che il fisiologico antagonismo congressuale travolga le basi» del Pd, dice il documento, «Se si intende procedere a una revisione critica», cosa ben accettata, «Vanno messi al bando i giudizi sommari in favore di un approccio rispettoso, non solo delle personalità che di quella vicenda furono protagoniste, ma anche e soprattutto del metodo partecipato che allora fu adottato: un primo Manifesto per il Pd, redatto nel 2007 da un comitato di saggi nominati da Romano Prodi, d’intesa con Piero Fassino e Francesco Rutelli, allora leader di Ds e Margherita, poi votato dai congressi dei due partiti e sottoscritto dai tre milioni di elettori che parteciparono alle primarie per l’Assemblea costituente ed elessero Walter Veltroni primo segretario del nuovo partito», e poi «un nuovo Manifesto dei valori, redatto da una commissione presieduta da Alfredo Reichlin».

Tradotto in soldoni: se qualcuno ha intenzione di inserire una critica al neoliberismo, come era filtrato dalle prime discussioni, dovrà accontentarsi degli ideali di eguaglianza e giustizia sociale. 

Letta contesta le ricostruzioni «caricaturali» del dibattito, ma di fatto accetta le due tesi: e cioè che sia che il Pd uscente non è titolato a decidere per il Pd futuro, sia che il manifesto del 2008 non va stracciato. Del resto si è già adoperato con la diplomazia interna perché il lavoro del comitato sia più “disciplinato”, cosa che, se pure per ragioni diverse e opposto, ha già provocato alcuni abbandoni (l’ex senatore Luigi Zanda, lo scrittore Maurizio De Giovanni, altri e altre potrebbero seguirli). E va detto che molti dei suoi più vicini, da Marco Meloni in giù, sono ormai orientati verso l’appoggio a Bonaccini. Tranne Francesco Boccia, che coordina la campagna di Schlein.

Bonaccini, ticket con Picierno

Il ragionamento degli “autoconvocati” sta molto nelle corde di Bonaccini, che si collega da remoto (dal circolo di Borgo Panigale alla periferia di Bologna). Del resto tranne uno, tutti i firmatari sono schierati con lui, anche se non tutti hanno già preso posizione:  Graziano Delrio, Stefano Graziano, Marianna Madia, Debora Serracchiani, Giorgio Tonini, Walter Verini.

L’unico con Schlein è Roberto Morassut. C’è anche l’europarlamentare Pina Picierno. Subito dopo l’incontro arriva la notizia del ticket: franceschiniana, molto corteggiata da Elly Schlein, e soprattutto molto votata al Sud, sarà la numero due del presidente dell’Emilia-Romagna. 

Il presidente dell’Emilia-Romagna dunque gioca in casa: avverte «pulsioni ad un cambiamento» che assomigliano a «rigurgiti identitari il cui sbocco appare più un ritorno alle casematte precedenti che non una sintesi più avanzata», per questo contrasterà una tendenza «che sarebbe la fine del Pd. E che ci porterebbe su binari strutturalmente minoritari, totalmente incapaci di ricostruire un’alternativa a questa destra».

Non gli piace anche l’idea di cambiare il nome al partito, e qui dà una stoccata alla proposta del sindaco di Bologna Matteo Lepore: «Siamo una forza laburista, nel senso che assegniamo al lavoro e ai lavori una funzione di cittadinanza democratica. Parliamo però di lavori perché siamo nel 2022, non nel 1970: e il nostro compito è quindi rappresentare il lavoro dipendente e autonomo».

Ne ha anche con Schlein, con garbo: «Non siamo un movimento. Abbiamo scelto di chiamarci partito, perché è attraverso i partiti che vive e si organizza la democrazia». Va bene innovare le forme ma «gli italiani non capiscano perché ci vogliano mesi, mesi e mesi per eleggere un nuovo segretario».

Votare prima

La pensa come lui anche Paola De Micheli che propone di anticipare le primarie e accorpare in un solo giorno il voto del partito e dei gazebo. L’idea non piace alla sinistra, che sospetta sia una macchinazione per azzoppare Schlein e toglierle tempo per la campagna fra i non iscritti, dove crede di avere più consensi. Ma non si può fare: servirebbe riunire l’assemblea nazionale e farle rinnegare il voto espresso solo poche settimane fa. 

Schlein ha capito che ce l’hanno con i suoi sostenitori e rassicura tutti: accetta la «cornice comune», «Non siamo qui per una resa dei conti identitaria ma per costruire il nuovo Pd e tenere insieme questa comunità. Salvaguardare il suo pluralismo, ma al contempo non rinunciare più ad avere una visione chiara, un’identità comprensibile alle persone che incrociamo nelle strade, nei luoghi di lavoro, nelle scuole, nelle nostre case».

Chi partecipa al congresso Pd ora sa che cambiare tutto non si potrà. Resta da vedere se dietro l’invocazione delle origini e delle le radici non ci sia, e neanche tanto nascosta, la richiesta di non cambiare niente. 

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