A guardar bene la notizia non c’è. Che il capo della Lega nonché vicepresidente del Consiglio rilanci l’evergreen di un condono tombale battezzato “pace fiscale” può stupire solo chi non abbia orecchiato un quarto di secolo della propaganda di destra, al governo o all’opposizione poco cambiava.

Oggi tornano a battere il chiodo. Sulla pubblica piazza come nel caso della premier col suo liquidare la tassazione agli autonomi “pizzo di stato”, o in favore di telecamera secondo i costumi del ministro delle infrastrutture.

Una soluzione indecente

La sostanza è la stessa. Dietro l’alibi di un sistema oppressivo e complicato si sdogana la soluzione peggiore. La più indecente: fessi quanti hanno pagato osservando le regole, furbi gli altri che accedono in saldo al pari e patta con l’Agenzia delle entrate previo versamento di una quota minima del dovuto, sino a un tetto di 30mila euro.

Detta in soldoni, la chiamano “pace fiscale”, nei fatti è l’assoluzione di una truffa ai danni del paese, dei suoi servizi essenziali. Del diritto a curarsi, studiare, fruire di trasporti pubblici decenti. Senza contare la sfera morale, il venir meno del patto su cui a lungo si è fondato il compromesso democratico nelle economie avanzate.

Miope opportunismo

Ora, al netto della tempistica – da qualche giorno la Camera ha licenziato una pessima legge delega in materia – cosa spinge maggioranza e governo a imbarcarsi in un’impresa destinata a gonfiare le vele della polemica con le opposizioni e non solo?

Non c’entrano le basi ideologiche dell’iperliberismo datato a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta. Parlo della “curva di Laffer” e quell’armamentario lì, l’idea sconfessata nel tempo di un taglio della tassazione destinato a innescare una crescita in grado di far salire l’alta marea e col livello dell’acqua ogni genere d’imbarcazione, yacht e gozzi compresi. Bene, quella mercanzia parrebbe finita nel retro bottega di qualche rigattiere. Almeno c’è da sperarlo.

Nel caso nostro la motivazione pare più prosaica. Banalmente, devono consolidare un blocco di consenso che ha nell’evasione diffusa il suo nocciolo duro. Per capirci, se la destra dovesse mancare di parola verso l’arcipelago di grandi, medi e piccoli evasori che ha confidato e creduto alle promesse di una continuità col passato («tranquilli amici che a voi un condono non lo negheremo mai!») diversi baluardi della pesca a strascico nelle urne di meno di un anno fa potrebbero collassare. E assai prima del previsto, voglio dire sino dalle prossime elezioni europee.

Si tratta di un calcolo miope e anche un po’ cinico dal momento che a pagare il prezzo di quella mannaia alla lotta all’evasione sarebbero i soliti noti, lavoratori salariati, autonomi onesti e pensionati spremuti.

Le colpe dei partiti

Ma pure qui non vale cadere dal pero. Che i nuovi potenti non si distinguano per la passione verso le regole del corretto vivere e di un sano governare dovrebbe essere noto. Meglio capire quali guasti quest’ultimo assalto a un fisco giusto possa indurre e quali, all’opposto, sarebbero misure da applicare con equanimità e saggezza.

Partiamo dalla critica di fondo a partiti – il trittico della destra spicca in classifica – disposti a insabbiare qualunque strategia per ripiegare sul tatticismo di chi rimuove ogni immaginazione di un futuro possibile.

Non è parlar d’altro. La colpa della loro concezione delle tasse come pignoramento è trascurare le conseguenze di medio e lungo periodo: la crisi finanziaria del modello di welfare universalistico, l’ulteriore delega al privato e al profitto di beni essenziali. Il tutto mentre gli stessi protagonisti vociano a vanvera su una scalcagnata autonomia regionalista destinata a trasformare le distanze di ora in ingiustizie incolmabili.

La propaganda non serve

Se a questo sommiamo che sei lavoratori su dieci hanno un contratto scaduto, che l’inflazione si divora una mensilità di stipendio, che la sanità nel pubblico versa in condizioni drammatiche dopo gli anni di pandemia, risulta evidente perché al posto di una propaganda distruttiva servirebbe un nuovo patto tra amministrazione e cittadini.

Lo si dovrebbe fare in un paese dove negli ultimi 45 anni lo stato tramite condoni di varia e dubbia natura ha incassato 132 miliardi col consuntivo che l’evasione è continuata a salire sino a una media attestata oggi attorno ai 110 miliardi l’anno. Il punto è che proprio la crisi di quel patto può travolgere gli ordinamenti liberali per come erano stati concepiti, non nella passata legislatura, ma lungo decenni.

Ancora una volta il rimando alla storia aiuta a capire perché camminiamo incoscienti sull’orlo del precipizio. Accade quando il rispetto del contratto fiscale, da valore, da principio fondante l’idea di statualità, si trasforma in disvalore come tale rivendicato dalle forze al governo.

A quel punto il rischio che la democrazia non regga l’urto delle contraddizioni da essa stessa generate diventa altissimo. Insisto, non stiamo parlando del classico laissez faire: stato leggero e carico fiscale basso per limitare la mediazione dell’autorità pubblica.

Qui siamo alla rimozione della realtà. Quasi 15 milioni di famiglie vivono con meno di 10mila euro lordi l’anno. L’ascensore sociale è guasto da generazioni e anche solo citare una riforma della tassa di successione attira scomuniche. In un quadro simile si resuscita la pratica dei condoni a pioggia alimentando la crisi culturale che è radice del disastro.

Valgano gli 81 bonus del nostro ordinamento in alternativa a una riforma che riconsegni progressività e si configuri strutturale. Ecco perché torna con irruenza il vuoto di visione, di una strategia, e la stessa evasione – battaglia che le tecnologie possono vincere – resta merce di scambio tra consenso e indulgenza.

Persino una sacrosanta riforma del catasto viene vissuta come attentato al diritto alla casa, con buona pace degli studenti che a Milano dormono in tenda per illuminare lo scandalo di posti letto affittati a costi assurdi.

Diciamo che senza progressività, semplicemente il nostro sistema-paese non è in grado di garantire l’accesso alla cittadinanza per qualche milione di italiani. Il tutto aggravato da un tempo dove i colossi dell’economia digitale aggirano qualsiasi regola, smaterializzano la produzione fondata su immagini, suoni, parole e sul controllo delle vite di alcuni miliardi di esseri umani.

Le misure necessarie

Allora, cosa servirebbe? Oltre al già detto, un intervento sull’Iva, una rimodulazione dell’Irpef, un intervento sulla tassa di successione e quella benedetta riforma catastale. Ma, infine, servirebbero due cose: una strategia di lungo termine e una riforma profonda dello stato.

Mi permetto di aggiungere, servirebbe una classe dirigente non disposta a sacrificare il destino dell’Italia sull’altare della prossima domenica elettorale o, peggio, dell’ultimo sondaggio. Insomma, servirebbe riscoprire una politica in grado di combinare pensiero e azione.

Una dimensione di programma mai slegata dalla conoscenza della storia e dal costrutto dell’analisi. Vasto programma, lo so, ma francamente una soluzione diversa, un altro sentiero, non c’è. E questo dovrebbe bastare a spingere le opposizioni tutte, quelle vere, di palazzo e di piazza, a imboccare quel sentiero al più presto possibile.

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