La guerra nel cuore dell’Europa ha riproposto la distanza tra chi al ventaglio di misure in difesa del popolo ucraino ha associato l’invio di un sostegno militare e quanti vi si sono opposti giudicando quella decisione fonte di altre sofferenze.

Non è la prima volta che accade, basterebbero i Balcani a darne conto. In questo caso la divisione ha visto da un lato il mio partito, il Pd, e Articolo 1, entrambi parte della maggioranza di governo. Dall’altra la galassia della sinistra, Cgil, Anpi, la rete di associazioni che ha promosso la manifestazione di piazza San Giovanni a Roma.

Riflettere sul punto può aiutare a capire meglio le differenze. Partiamo dalle posizioni più radicali. Parlo di un pacifismo integrale che rifiuta sempre e comunque il ricorso alle armi. In questa logica ogni operazione bellica è per definizione volta ad alimentare la spirale della guerra.

Con una forzatura si può dire che la posizione speculare stia nell’idea che solo la sconfitta militare del “nemico” è in grado di porre fine al conflitto in essere. Vorrebbe dire attivare tutti i mezzi e risorse disponibili (dall’invio di armamenti alla no fly zone e alla sicura escalation militare) come via obbligata se si vuole sconfiggere Putin.

La ricerca di un compromesso

Detto ciò esistono altre due letture che vanno prese in esame. Sono quelle più interne alla riflessione degli ultimi giorni. Ad accomunarle è un concetto: qualsiasi giudizio si dia sull’invio di armi alla resistenza ucraina – per inciso, chi scrive quella legittimità condivide – il conflitto non potrà che concludersi con una trattativa e un compromesso. Nessun altro scenario o esito è percorribile.

Ma allora quale sarebbe il motivo razionale per aiutare gli ucraini a difendersi e resistere con maggiori armi e risorse? La risposta è rendere più credibile la volontà dell’Europa di non abbandonare al suo destino un paese militarmente occupato.

In altri termini la scelta di esercitare una pressione sulla Russia a che receda dalla linea seguita e scelga di sedere a un tavolo dopo l’immediato cessate il fuoco. Ora, è possibile coltivare il medesimo obiettivo senza condividere l’aspetto (non di dettaglio) sull’assistenza militare.

Lo ha fatto Mario Giro su queste colonne quando in un decalogo su come fermare la guerra di Putin ha spiegato perché a suo avviso «ogni iniziativa militare, anche indiretta, può farci fatalmente scivolare sulla china che pur diciamo di non volere». In questo caso a emergere è una differenza di giudizio sull’efficacia della misura, ma mi sembra si tratti di altra cosa rispetto al contestare il principio in sé, vale a dire il diritto di un popolo a difendersi e ad avere il sostegno necessario per farlo.

Insomma, se lo slogan diventa “nessun’arma da noi perché la guerra deve uscire dalla storia” bisognerebbe avere la coerenza di riconoscersi in un pacifismo integrale come molti hanno fatto nella storia e continuano a fare nel presente.

Se invece la logica converge nel bisogno di spingere Mosca a una trattativa dove ciascuna delle parti dovrà sacrificare qualcosa, allora si possono avere valutazioni diverse sui mezzi da impiegare a quel fine sapendo però che il traguardo è per tutti lo stesso.

Se una fragilità il corteo e la piazza di sabato scorso avevano è stato nel non avere chiarito a sufficienza questo punto. Invece credo sia giusto farlo nell’interesse stesso di quei sindacati, del movimento pacifista e di un popolo diffuso che avrà mille dubbi, ma che tra l’aggressore e l’aggredito sa distinguere ancora benissimo.    

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