«Tanto sangue dietro di noi e tanto, forse, dinnanzi a noi, non contano di fronte a questo fatto che riscatta la vita. Tra tanto male e tanto dolore questa umanità che si ritrova è un annuncio di speranza.  Possiamo forse anche gioire? Non so; ma tutte queste cose sono vere; la vita, con tutto il suo lamento, è una cosa vera. Vale, perciò, la pena di vivere».

Aldo Moro scrisse queste parole in una lettera a un suo studente all’università di Bari dove il futuro presidente del Consiglio insegnava Filosofia del diritto, Giuseppe Di Lecce. Di Lecce divenne avvocato, oggi ha 96 anni, ha proposto per la pubblicazione questo carteggio rimasto inedito in questi quasi ottant’anni. Era il 31 maggio 1945, il territorio nazionale era stato liberato da poco più di un mese e Moro ragionava sul futuro.

Ho letto e riletto più volte quella frase: «Tanto sangue dietro di noi e tanto, forse, dinnanzi a noi...». Mi è risuonata come una dolorosa profezia, soprattutto quel forse dubitativo. Il 9 maggio di 45 anni fa toccò a Moro versare il suo sangue, in una stagione di follia ideologica e di attacco oscuro alla democrazia, lui che ancora a Di Lecce, il 28 giugno 1945, parlava di una «dolce, mite legge di un sacrificio che costruisce per la vita e non per la morte».

Tra potere e verità

Per chi conosce il suo pensiero sarà facile ritrovare in queste lettere bellissime l’eco degli scritti giovanili di Moro, quelli sulla Rassegna, il giornale da lui fondato con altri giovani docenti universitari nel 1943 a Bari, dove si firmava Mr e scriveva nel 1945: «Il nostro posto è all’opposizione, il nostro compito è al di là della politica. Noi non abbiamo aspirazioni a governare. Non vogliamo il potere, perché esso ci fa paura. Potrebbe rendere anche noi conservatori, conservatori, non fosse altro, di una libertà meschina e personale. Potrebbe abituarci al compromesso, potrebbe insegnarci la finzione. E noi vogliamo essere liberi, liberi di tutta la libertà dello spirito. Crediamo di costituire una riserva perenne contro la disperazione dello scetticismo. Proprio perché crediamo alla verità, possiamo farci critici spietati di tutte le false credenze...».

L’opposizione tra il potere e la verità segnò l’esordio di Moro sulla scena pubblica e ne caratterizzò anche la fine drammatica, con la stessa ispirazione. Nessun apparato, nessuna istituzione, poteva contenere la persona e la sua ansia di liberazione, «perché senza la politica manca all’uomo l’ambiente nel quale costruire il suo mondo, ma se la politica vuole essere tutta la vita, l’uomo è finito e la vita perde la sua chiarezza e ricchezza… Al di là della politica c’è un residuo immenso che rischiamo ancora di sprecare».

Due leggi

Al di là della politica, ma non contro la politica o senza la politica. C’è in questa ispirazione, certamente cristiana in Moro, anche un principio di laicità. E di contemporaneità. Negli ultimi anni la battaglia politica si è svolta sempre di più attorno alla vita che è oltre la politica, ai corpi, ai corpi delle donne, in particolare. Per questo, nelle pagine che seguono, Giorgia Serughetti e Cecilia D’Elia discutono da una posizione di sinistra la questione del fare figli, una questione politica che esige una risposta progressista e non conservatrice. Una posizione che è, prima di tutto, la capacità di relazione, il cui venir meno, scrivono le autrici, è «la spia dell’esaurirsi della capacità di investimento temporale e di cura tra le persone. La fine delle promesse del futuro, in stretta connessione con la capacità di affrontare la crisi climatica».

Sono passati quasi completamente inosservati gli anniversari di quelle leggi che per prime hanno portato nel nostro sistema giuridico la necessità dei corpi, del loro rispetto, della loro autonomia, in un confine strettissimo tra la necessità di una politica che tutela e che riconosce (come scrive la Costituzione) e al tempo stesso rispetta il senso del limite e la libertà della coscienza di ognuno. La legge 194 sull’interruzione di gravidanza, la legge 180 in tema di accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori che porta il nome di Franco Basaglia.

Entrambe le leggi furono discusse e approvate 45 anni fa, mentre il rapimento di Moro stava per concludersi nel sangue del prigioniero. Erano modernissime nella loro ispirazione, ancora questa parola, uno squarcio di futuro. Era ancora l’epoca delle ideologie, delle grandi appartenenze collettive, in cui non c’era spazio per aspirazioni individuali e per le sofferenze fisiche e psichiche dei singoli corpi.

Il corpo di ognuno

Oggi, invece, la difficoltà della politica è proprio in questa impossibilità di dare risposte e ristoro ai singoli corpi: il corpo di ognuno. È quello che riassume Aldo Schiavone nel suo colloquio con Carmine Fotia: «Il riferimento al lavoro e alla classe operaia era fondamentale. Queste categorie che sono saltate, almeno a datare dagli anni Ottanta del secolo scorso. Il lavoro non produce più automaticamente aggregazione di classe e ciò fa venir meno le basi sociali delle sinistre tradizionali in tutto l’occidente. E al tempo stesso colloca a destra il voto operaio, come nell’Italia del nord e in tanti altri paesi occidentali. Se gli operai, non più “classe operaia”, votano a destra in tutto l’occidente, salvo per il momento la Germania, viene meno quello che era stato il valore fondante delle sinistre».

Il lavoro si sfrangia, si divide, si sminuzza in mille figure contrattuali, in tanti corpi, ciascuno di solo di fronte alla sua vicenda quotidiana, di trasporti, di servizi, di qualità dell’abitazione, di rapporto con la sanità, con la scuola, con i tempi di spostamento. C’è anche tutto questo dietro quella che ci ostiniamo a chiamare crisi della rappresentanza. Che trascina a una risposta politica che punta sulla solitudine, l’anonimato. O, al contrario, sulla relazione, la prossimità, la condivisione di una esperienza singola con quella di qualcuno che ti sta vicino.

La storia di Barbara Capovani, psichiatra di 55 anni, responsabile dell’unità di salute mentale dell’ospedale Santa Chiara di Pisa, aggredita a colpi di spranga da un uomo e uccisa, scrive Daniele Mencarelli, è al bivio tra queste due strade, lontananza o vicinanza, e «quella della malattia mentale è solo una delle tante forme di abbandono in cui vivono milioni di famiglie italiane. Che sia disabilità o patologia, di qualunque tipo, non cambia. La risposta dello Stato è sempre la stessa. L’assenza. E chi vive da abbandonato, si arrangi».

I corpi, infine, ritornano nelle migrazioni. Sono loro, i fuggiaschi, i dannati, i sommersi e i salvati, la nuova narrazione di massa, in cui, come racconta Elena Testi nel suo viaggio tra i servizi di accoglienza per i minori non accompagnati, affidati alla buona volontà dei sindaci lasciati soli, ogni storia è il tassello di una vicenda collettiva, ma anche una singolarità che non può essere ricondotta alla parabola di tutti.

Sono i cambiamenti che impongono alla cultura della sinistra di ripensare sé stessa. La destra è a suo agio nell’imprigionare i corpi nelle paure. La sinistra dovrebbe agire per liberarli. Senza operare contrapposizioni inutili e dannose tra i diritti civili e i diritti sociali, perché oggi fare politica significa soprattutto ricucire tra queste due dimensioni, che sono la dimensione individuale e la dimensione collettiva. È il filo sottile su cui si trova a camminare anche la nuova segretaria del Pd Elly Schlein, come ce la racconta Paola Natalicchio, né democristiana né massimalista, semmai una funambola, in bilico tra il vecchio partito e la politica nuova che richiede la capacità di riconoscimento prima ancora che di guida, e quindi immersione in una società sempre più frammentata.

Vita oltre la politica

C’è tutto questo, nella parola politica, che i primi venti anni del nuovo secolo avevano messo fuori dalla storia e che è rientrata in modo prepotente con la pandemia, la guerra, gli effetti del cambiamento climatico, le migrazioni, il lavoro mutato, l’intelligenza artificiale, il corpo degli uomini e delle donne in continua trasformazione, la povertà che asseta un pezzo di territorio nazionale, il ceto medio che era l’isola della sicurezza e da anni si è trasformato nell’epicentro delle paure e delle solitudini.

«Vale, perciò, la pena di vivere», concludeva Moro con Di Lecce nel 1945, quasi ottant’anni fa. Oggi più che mai la vita è oltre la politica, ma senza la politica, come abbiamo visto in questi anni, viene a mancare all’uomo qualcosa di profondo nel suo essere. Un cambiamento che mette in discussione le parole riforme e radicalità, e le antiche distinzioni tra cattolici e laici, vecchia sinistra e nuova sinistra. Se si ha la voglia di stare nel tempo che ci è stato dato da vivere.

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