Nega l’eccessiva vicinanza alla destra: «Collaboriamo con tutti». Rilancia la battaglia sulla trasparenza delle etichettature per «contrastare un grande problema» e conferma il no alla carne coltivata: «La scienza dimostrerà che le nostre preoccupazioni sono giuste». Ettore Prandini, presidente della Coldiretti, in questa intervista, annuncia anche battaglia a Bruxelles.

Si parla tanto di made in Italy, ma spesso ci sono prodotti che di italiano hanno solo l’ultimo passaggio. Come lo si spiega a un consumatore?

Il tema è esiziale per quanto ci riguarda. Si tratta della regola dell’ultima trasformazione sostanziale. Grossolanamente, il senso è questo: se importo un pomodoro o un suo concentrato dalla Cina o da un altro paese e poi lo lavoro sostenendo un costo superiore a quello di importazione, ho fatto una trasformazione sostanziale. Questo, unito al cambio di codice doganale conseguente al processo di trasformazione, rende il prodotto “made in Italy”.

Intanto il consumatore acquista inconsapevolmente.

Per questo motivo chiediamo l’etichettatura d’origine obbligatoria per tutti i prodotti agroalimentari. Abbiamo lanciato una mobilitazione europea per abolire la regola dell’ultima trasformazione sostanziale. È una questione di trasparenza. Se compro un prodotto alimentare su cui c’è scritto made in Italy, mi aspetto che gli ingredienti o almeno i principali siano italiani.

Ma, al di là delle battaglie di immagine contro il parmesan e simili, cosa si sta facendo sul piano concreto sulla questione dell’etichettatura?

Abbiamo un problema generale di trasparenza dei mercati agroalimentari. La norma dell’ultima trasformazione sostanziale va modificata a Bruxelles. Ma il tema è sentito in tutto il mondo. È recente, purtroppo, il via libera dato a una class action negli Stati Uniti contro un noto marchio italiano, accusato di aver indotto i consumatori a pensare di acquistare pasta fatta in Italia, che in realtà era completamente prodotta negli Usa, grano incluso.

Sta parlando della vicenda Barilla, che si è difesa spiegando che l’etichettatura non era ingannevole. Cosa c’entra con l’ultima trasformazione sostanziale?

Intanto siamo rammaricati e preoccupati per la class action perché è una macchia che potrebbe colpire uno dei simboli del made in Italy e riverberarsi sulla reputazione dell’intero sistema. Un giudice ha ritenuto legittime le richieste dei consumatori statunitensi che hanno denunciato Barilla per aver utilizzato messaggi ingannevoli in etichetta. Vedremo come andrà a finire.

Nel settore c’è spesso uno scontro tra organizzazioni. C’è l’associazione Mediterranea, nata dall’intesa di Unionfood con Confagricoltura, con cui avete ingaggiato uno scontro a distanza. Non sarebbe opportuna una cooperazione?

A noi sembra intollerabile che un gruppo di potenti multinazionali tenti di evocare la dieta mediterranea per rifarsi il trucco nel paese simbolo dello stile di vita mediterraneo. È una mistificazione, un tentativo di social washing. Poi ci dispiace che a fare da cerniera a questa Mediterranea sia una parte dell’industria italiana che, non so quanto consapevolmente, è compartecipe di questa iniziativa come UnionFood, che raccoglie diverse sigle dell’industria alimentare, ma anche della farmaceutica, presieduta proprio da Paolo Barilla.

Parla molto del peso delle multinazionali in senso negativo, ma Coldiretti è oggi considerata una lobby molto potente.

La forza di Coldiretti è il consenso che le sue iniziative riscuotono non solo tra gli agricoltori, ma soprattutto tra i cittadini. La nostra capacità di mobilitare attorno a questioni che riguardano la salute e il futuro dei territori. La nostra forza si esprime tra la gente, nei nostri mercati contadini, nei nostri villaggi più che nei palazzi. Alimentiamo un circuito democratico e trasparente, crediamo che questo sia il miglior argine alle pressioni di alcune multinazionali.

Ma con le multinazionali, per esempio McDonald’s, non vengono fatti accordi?

Con McDonald’s abbiamo promosso un accordo di filiera sostenibile che permette ai nostri agricoltori di vendere i prodotti a questa grande multinazionale a un prezzo remunerativo. McDonald’s oggi utilizza oltre l’85 per cento di prodotto italiano, che per una parte significativa è Dop e Igp, il triplo di prima della nostra collaborazione. Per una volta è la multinazionale che, per così dire, si piega e non detta le regole, ma le costruisce insieme agli agricoltori. Completamente diversa è la vicenda di Mediterranea. Usa un nome che evoca la nostra millenaria dieta e la nostra cultura gastronomica, che si struttura in una formula associativa, ma di fatto nasconde il tentativo di quattro grandi multinazionali, Unilever, Nestlè, Mondelez e Lactalis, di rosicchiare fette di valore al made in Italy.

E se queste multinazionali sono animate da buone intenzioni?

La strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni, diceva sant’Agostino. Qui dovremmo parlare di sentiero di redenzione per chi come Unilever investe nel cibo in laboratorio o come Lactalis sanzionata per aver agito in modo sleale nei confronti degli allevatori italiani. O per chi, come Nestlè, si è messo alla testa dei sostenitori del Nutriscore e per chi come Mondelez ha da poco ricevuto una pesante multa – circa 330 milioni di euro – dalla Commissione Ue per aver ostacolato il commercio transfrontaliero di diversi prodotti alimentari.

Sul cibo in laboratorio come per la carne coltivata non crede che Coldiretti abbia fatto una battaglia di retroguardia?

Al contrario, la definirei di avanguardia. Se qualcuno vuole farci passare per oscurantisti si sbaglia di grosso. Noi abbiamo acceso la luce. Chiediamo alla scienza libera e pubblica di esprimersi, di darci una mano a capire i rischi di un’alimentazione progettata in laboratorio che rinuncia al rapporto con la natura. Se guardiamo a questa scienza, e non solo alle relazioni tecniche dei laboratori coinvolti nella produzione, emergono altre preoccupazioni che iniziano a mettere in discussione le promesse dei cibi in laboratorio.

Senza il sostegno delle nuove tecnologie, come la carne coltivata, cosa si può fare per contrastare l’impatto dell’agricoltura sul clima?

Se tutti gli allevamenti del mondo avessero lo stesso livello di emissioni di quelli europei avremmo abbattuto una parte consistente delle emissioni zootecniche globali. Ci sono già esempi di aziende con sistemi di mitigazione che azzerano praticamente gli impatti in un’ottica di circolarità. E poi i cibi in laboratorio sono estremamente energivori e, a differenza di quanto affermano i sostenitori, più inquinanti di un moderno allevamento.

Sì, ma non tutto può essere prodotto in Europa o in Italia. È impossibile immaginare una sorta di autarchia produttiva per difendere il made in Italy.

Non crediamo che si debba demonizzare chi importa. Bisogna solo assicurare una corretta informazione a chi compra e consuma. Il sistema dei circuiti della qualità Dop e Igp, di cui deteniamo il primato, il nostro saper fare, il nostro modo di rapportarci con i consumatori, i canali della vendita diretta ci hanno permesso di costruire una solida linea di difesa rispetto all’avanzata di una visione omologante del cibo, portata avanti dai grandi imperi multinazionali.

Cosa intende per “visione omologante del cibo”?

Parliamo in particolare di merendine e snack, ma non solo, in cui additivi, coloranti, addensanti la fanno da padrone, contribuendo ai più importanti disastri sanitari del nostro tempo. Su tutti l’obesità infantile e le malattie dell’apparato digerente. Ci sono anche i tentativi di etichettatura a semaforo, caldeggiati da multinazionali e già utilizzati in molte parti del mondo, che danno il bollino verde alle bibite gasate senza zucchero e quello rosso al parmigiano reggiano.

In chiusura torniamo in Italia. Non teme che l’eccessiva vicinanza a questo governo abbia connotato troppo politicamente la Coldiretti?

Credo che la storia della Coldiretti parli da sola. Abbiamo cultura di governo, è indiscutibile, ma non siamo mai stati collaterali o subalterni a nessuno. Da sempre collaboriamo con tutti i livelli di governo, di qualsiasi colore. Purtroppo, esiste ancora una visione ideologica per la quale bisogna identificarsi in un campo o nell’altro. Così i corpi intermedi smettono di rappresentare la società e sono destinati all’estinzione. Noi da quarant’anni abbiamo fatto una scelta diversa.

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