L’ex premier incita la piazza di sabato contro «il partito dell’Europa militarizzata». Schlein in bilico. Ma in direzione e all’Assemblea dovrà affrontare il tema Nato
Giuseppe Conte attacca alzo zero «il partito dell’Europa militarizzata» che a Strasburgo ha votato «a favore della possibilità di usare per spese militari e riarmo i fondi del Recovery Fund». «Un tradimento di quella battaglia e degli sforzi di tanti italiani».
Alla vigilia del corteo romano contro il riarmo, ce l’ha con Giorgia Meloni, certo. Eppure nel partito «dell’Europa militarizzata» che ieri ha votato sì alla risoluzione incriminata da M5s e Avs (che raccoglie le firme contro) c’è anche il Pd. Insieme a FdI e FI. Sarebbe stato difficile il contrario: il cuore del documento chiede la proroga di 18 mesi dei progetti del Pnrr, che scadono nel 2026.
Una richiesta, spiega Stefano Bonaccini, «che ci hanno fatto tanti sindaci e amministratori locali che da tempo chiedono più tempo per concludere, ospedali, scuole, asili nido». Quella del parlamento europeo è una «risoluzione non legislativa» indirizzata alla Commissione al commissario Raffaele Fitto, che peraltro fin qui si è detto contrario.
No ma anche sì
Il fatto di cui parla Conte è un altro: in quel documento, il punto 15 apre alla possibilità di usare quei fondi «per contribuire agli obiettivi della Piattaforma per le Tecnologie Strategiche»; il punto 18 consente che siano «riorientati per stimolare la competitività, la resilienza, la difesa»; il punto 43 chiede si valuti «di consentire investimenti mirati nelle catene di approvvigionamento della difesa, nelle scorte strategiche e nell’innovazione nel settore della difesa dell’Ue».
Meloni ha già detto che l’Italia non lo farà. I dem hanno votato no a questi specifici punti, in dissenso dal gruppo S&D – non tutta la delegazione era d’accordo, non lo era Pina Picierno, hanno votato sì, quindi con i socialisti, Giorgio Gori e Elisabetta Gualmini. Ma poi alla fine il Pd ha votato sì a tutto il testo, con la sola astensione di Marco Tarquinio.
Meritandosi la mezza presa in giro del relatore Victor Negrescu che sottolinea che le voci in dissenso in S&D «non hanno portato a creare una maggioranza», insomma che il Pd è in minoranza nel gruppo. E per sovrappiù che «il commissario Fitto ha pubblicato un testo sull’attuazione del Rrf (Recovery and Resilience Facility, il Dispositivo per la Ripresa e la Resilienza, ndr) fino alla fine di agosto 2026» dove «si parla di utilizzare parte dei fondi per progetti connessi ad altri programmi connessi alla difesa. Quindi la nostra relazione non porta nulla di nuovo sul tavolo».
Resta che il Pd vota no, ma poi vota sì. Sul piano di riarmo si è astenuto, con un abbondante drappello di dissidenti che hanno votato sì, ma poi ha spiegato di essere contrario. E al corteo contro il riarmo non aderisce ma invia – in maniera unofficial, certo – un buon drappello di parlamentari.
Morale: sul tema dei soldi per le armi, il partito di Elly Schlein tenta un equilibrio complicatissimo, «tartufesco» secondo i riformisti dem. Conte attacca, per tirare la volata alla piazza, anche se evita di dire che ce l’ha con l’alleato. Ma è chiaro che su questo lui fa e farà sempre fare «più uno». In piazza e ai futuribili tavoli del programma del centrosinistra, dove il Pd potrebbe trovarsi in minoranza rispetto a M5s e Avs.
Minoranza divisa
L’equilibrio di Schlein per ora tiene. Forse scavallerà le turbolente ore del corteo. Ma prima o poi la segretaria dovrà portare il suo partito a dire «sì sì, no no». La prossima settimana ci sarà il vertice Nato dal 24 al 26 all’Aja. L’alleanza chiede ai governi l’investimento del 5 per cento del Pil, l’Italia ci arriva con la disponibilità a portare le spese al 3,5 in dieci anni. Qui il Pd non potrà replicare con la formula usata contro il ReArm Eu, «no al riarmo dei singoli stati, sí alla difesa comune europea» sulla quale, al di là delle intemperanze, le posizioni interne non sono così divaricate.
Paolo Gentiloni, ex commissario europeo e riferimento dei riformisti, chiede di «europeizzare la spesa» militare. Nicola Zingaretti, capodelegazione a Bruxelles, dice che «l’Europa ha bisogno di un nuovo modello di difesa comune per la sua sicurezza, ma va fatto con risorse aggiuntive e debito comune».
Ma presto o tardi il tema della Nato si porrà: soprattutto nella minoranza Pd, dove c’è un drappello che scalpita per differenziarsi dalle posizioni di politica estera di Schlein, anche rompendo la «gestione unitaria» inaugurata con la presidenza del partito affidata a Stefano Bonaccini.
Nel Pd per ora minimizzano tutti. Ma entro fine mese la segretaria dovrà riunire la direzione, quella in cui si doveva parlare del flop dei referendum, troppo velocemente archiviati. Nella relazione la segretaria non potrà non inserire il no all’aumento delle spese militari, se non condizionate a un piano di difesa comune.
E chiedere un voto. E stavolta la minoranza non potrà uscire dalla sala Sassoli, come ha fatto per i referendum per evitare di mettere a verbale il suo dissenso. La scena si potrebbe replicare all’Assemblea nazionale. Che per la verità nessuno ha voglia di convocare, ma che lo Statuto impone prima della pausa estiva.
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