Alla Camera, in pieno voto di conversione del decreto legge 152 sulle “disposizioni urgenti per l’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza” la renziana Silvia Fregolent in aula la prende molto alla larga e torna indietro di un anno. Per rivendicare a Italia viva il merito di aver portato Mario Draghi al governo.

Cita come una Bibbia le parole del suo leader: «All’inizio del 2021 abbiamo aperto una crisi di governo in piena pandemia. Ci hanno definiti pazzi e irresponsabili, ma noi pensavamo giusto e necessario per l’Italia cambiare passo sui vaccini, sull’economia e sul futuro. Oggi sono più convinto di prima: l’ho fatto e lo rifarei. Grazie al nostro coraggio e all’arrivo di Draghi, il paese è più forte di prima».

L’effetto ventriloquo è divertente, ma il senso è chiaro: Draghi è stato indispensabile per «una svolta» dal governo giallorosso, ma a un anno di distanze lo è ancora. Infatti il fondatore di Italia viva lavora alacremente a un’altra soluzione per il Colle.

Qualche ora più tardi al Senato inizia la discussione generale sulla legge di Bilancio. Un ritardo record, di cui tutti più o meno si lamentano. Ma la maggior parte dei senatori pensa ad altro, ha un chiodo fisso: «Ci vuole stabilità e il premier Draghi sta lavorando bene, è la migliore garanzia di stabilità e sicurezza per tranquillizzare tutti gli attori», ragiona per esempio Alessandro Alfieri, Pd tendenza Base riformista.

Vertici a destra e sinistra

Formalmente siamo ancora lontani dal tempo delle scelte. Il 4 gennaio il presidente della Camera, Roberto Fico, indirà la prima votazione, non prima del 19 o 20 dello stesso mese. La conferenza dei capigruppo si riunirà nella settimana che parte dal 10 gennaio per fissare il calendario dei lavori dell’aula nei giorni rimanenti prima che inizi la seduta comune per eleggere il nuovo presidente.

Domani i leader del centrodestra si riuniscono nella villa romana di Silvio Berlusconi, sulla via Appia; e invece il segretario del Pd, Enrico Letta, ha fissato per il 13 gennaio una riunione congiunta fra gruppi parlamentari e direzione per impostare il percorso di elezione del nuovo capo dello stato.

Nel frattempo si scruta il cielo. E si aspetta la conferenza di fine anno di Draghi, oggi, sperando che faccia un cenno di comprensione per il dolore dei parlamentari (quasi tutti), preoccupati che la sua ascesa al Quirinale provochi la fine anticipata della legislatura. Dalle due camere sale un appello in stereofonia, a più voci. Di qualsiasi tema si discuta, il sottotesto o direttamente il testo è sempre lo stesso: che a palazzo Chigi tutto resti com’è.

Il ragionamento comune è giudizioso e responsabile. Stamattina, all’Auditorium Antonianum, Draghi potrà vantare di aver raggiunto gli obiettivi concordati con l’Europa per il 2021. Ma il vero scoglio è quello del 2022: entro giugno, dovremo aver approvato le riforme imprescindibili, da quella fiscale a quella della concorrenza, della giustizia e della pubblica amministrazione.

Le ambizioni di Casellati, la presidente che ora sogna di fare “il presidente”

Obiettivi impensabili nel caso in cui il paese precipiti verso il voto, ipotesi estrema. Ma irraggiungibili comunque senza l’unico che riesce a mandare avanti la baracca di una maggioranza sfilacciata e pronta all’esplosione.

Il presidente del Consiglio, accolto con un’ovazione dagli ambasciatori riuniti per la seconda giornata della tradizionale conferenza del corpo diplomatico, ha usato parole di incoraggiamento per un paese oggi grazie alla politica estera «più forte, più influente, più credibile» ed ha spronato allo «stesso spirito di collaborazione, la stessa determinazione» anche «per il prossimo anno».

Anche senza di lui?

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Dalle camere lo spirito di concordia nazionale non è immaginabile senza Draghi. Per questo fra deputati e senatori per tutto il giorno va in scena un involontario duetto a distanza, sperando che “lui” ascolti. In un crescendo rossiniano.

Da Montecitorio la forzista Stefania Prestigiacomo si preoccupa per «la parte più difficile» che «ci attende il prossimo anno, quando saremo chiamati a realizzare riforme che valgono 40 miliardi di euro», «noi continueremo, come Forza Italia, a lavorare nel governo Draghi e nelle aule parlamentari, con l’atteggiamento responsabile e costruttivo». Il pensiero che quell’esecutivo non ci sia più neanche la sfiora.

Dal Senato risponde l’ex temibile Paola Taverna, già ultrà da sfondamento del Movimento 5 stelle, trasformata ormai in una compita e pettinata tifosa della stabilità di governo: «Nell’ottica dell’attuazione del Pnrr, meglio che sia il premier Draghi a terminare la legislatura». E il sottosegretario alla difesa Giorgio Mulé, già portavoce di Forza Italia: «Questo governo è nato per rispondere alla crisi sanitaria, economica e sociale, la prima non è conclusa, quella economica si sta affrontando, nel 2022 dopo il Pnrr dobbiamo mettere in campo i progetti».

Nell’altra camera un senatore grillino avverte che «le operazioni di Giavazzi» – Francesco, formalmente un consulente economico di palazzo Chigi, sostanzialmente un plenipotenziario del premier – «quaggiù non scaldano il cuore». Significa che viene considerato ispirato direttamente da palazzo l’articolo in cui Bill Emmott sul Financial Times augurava all’Italia che l’ex presidente Bce si spostasse al Quirinale.

Ma il professore Stefano Ceccanti, deputato e costituzionalista, spiega che «l’idea di Draghi che controlla la messa a terra del Pnrr dal Colle è solo una suggestione: la cabina di regia sta a palazzo Chigi. Anche quella di un Draghi che rappresenta il paese ai tavoli europei lo è: la legge 234 del 2012 stabilisce che sia il presidente del consiglio a venire nelle camere a relazionare sulla posizione dell’Italia al Consiglio europeo e si vota». Come dire che l’ospite del prestigioso quotidiano britannico forse non ha chiara l’architettura istituzionale del nostro paese.

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