Da rifare, condannato alla sconfitta, irriformabile. In questi giorni post elettorali tutti parlano del futuro del Partito democratico, o meglio: della sua mancanza di futuro. Domenica è stata una giornata drammatica per il partito. In termini percentuali, il Pd ha perso tre punti rispetto alle Europee del 2019 e in voti assoluti è sotto di un milione di preferenze rispetto alle politiche 2018. Ma se dal breve termine e dal nostro ombelico politico proviamo ad allargare lo sguardo ai trend europei di medio periodo potremmo notare che non va poi tutto così male. O che, almeno, potrebbe andare molto peggio.

C’è chi vince

«Anche dopo il risultato di domenica il Pd continua a viaggiar su numeri abbastanza in linea con gli altri partiti socialdemocratici europei –  dice Mattia Guidi, professore di scienze politiche all’università di Siena e autore di diversi articoli sui partiti socialisti europei – Fa peggio di quelli che fanno meglio, ma molto meglio di quelli che fanno malissimo. È vero che alle ultime elezioni non è andato bene, ma rimane intorno al 20 per cento che, in ottica europea, è un risultato dignitoso».

Il Pd e la sinistra tradizionale europea, riunita nel Partito dei socialisti europei (Pes), devono infatti fare i conti con uno scenario che è radicalmente cambiato in peggio e non solo in Italia. Sono finiti gli anni Novanta, quando era possibile guidare da Parigi a Vilnius passando soltanto per paesi governati dai socialisti. 

La crisi finanziaria del 2008 ha messo in dubbio la “terza via” centrista alla quale tutti, chi più e chi meno convintamente, si erano convertiti, mentre l’ascesa di forze populiste e antisistema ha creato pericolosi concorrenti a sinistra. A destra, la nuova ondata della destra radicale ha dato nuova vitalità ai conservatori. Nel 2016, al culmine di questa crisi, l’Economist aveva calcolato che la famiglia europea del Pes aveva perso circa un terzo dei voti rispetto al picco raggiunto a cavallo del millennio. 

Ma non tutti i membri della famiglia hanno sofferto allo stesso modo. «Tra quelli che vanno meglio, c’è il Psoe spagnolo. Non arriva più ai risultati dei tempi di Zapatero, quando sfiorava il 40 per cento, ma veleggia stabilmente sotto al 30». I vicini portoghesi, guidati da Antonio Costa, sono riusciti a fare ancora meglio e alle politiche dello scorso gennaio hanno ottenuto addirittura il 41 per cento. In Germania e Scandinavia, le storiche patrie della socialdemocrazia europea, i socialisti declinano, ma mantengono percentuali tra il 20 e il 30 per cento.

E chi scompare

Il Pd può guardarli con invidia, ma può consolarsi del fatto che c’è a chi è andata molto peggio. I socialisti greci, per lungo tempo egemoni nella politica del paese, sono scomparsi in modo così fulmineo da aver dato origine a un verbo per descrivere la distruzione di un partito nel giro di un ciclo elettorale: pasokizzazione (dalla sigla con cui è conosciuto il partito, Pasok).

Il Partito socialista francese è forse più adatto per una comparazione con quello italiano. A lungo secondo partito del paese, nel 2017 è stato svuotato da Emmanuel Macron, che si è proposto come alternativa centrista in un sistema che spinge molto all’aggregazione. Dopo essere crollati dal 30 al 7 per cento cinque anni fa, alle ultime elezioni i socialisti si sono presentati all’interno della coalizione di sinistra guidata da Jean-Luc Mélenchon.

C’è poi un’ultima considerazione positiva da fare. Confrontato con altri partiti che sembrano su un ottovolante di consensi (Movimento 5 stelle, Lega, Fratelli d’Italia), il Pd si mantiene costante nel numero di voti che raccoglie. Il suo elettorato è fedele e stabile. Non cresce da anni, ma non subisce nemmeno improvvisi declini.

Coalizzabile o no?

Tutto bene, quindi? Non proprio. C’è un evidente problema di medio periodo: un elettorato stabile, e nel caso del Pd, mediamente anziano, è destinato a diminuire per ragioni biologiche. Ma ce n’è uno ancora più grosso nel breve periodo. «Quello che è un po’ più preoccupante è il contesto in cui si muove il Pd – dice Guidi – Meloni fa il 26 per cento, non tanto più del Pd, ma aggrega e per questo vince, il Pd cosa vuole aggregare?».

Nel 2013, nel 2018 e poi ancora nel 2022, il Pd ha perso anche, e forse soprattutto, perché è stato incapace di formare coalizioni competitive. Questa incapacità, più che le performance elettorali, sono ciò che lo distingue dai suoi cugini più di successo nella famiglia del Pes.

In Spagna, ricorda Guidi, il Psoe alla fine ha raggiunto l’accordo con Podemos, che pure molti nel partito non digerivano. In Portogallo, Antonio Costa ha governato a lungo con la sinistra radicale, svuotandoli di consensi e riuscendo, dopo le ultime elezioni, a ottenere una maggioranza autonoma.

È questo passaggio che il Pd sembra incapace di fare. Pronto ad accettare alleanze con chiunque sotto l’egida dei tecnici, si chiamino Monti o Draghi, sembra invece incapace di costruire coalizione autenticamente politiche.

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