Della “Rete savonese: fermiamo il carbone” mi colpiva l’incredibile fauna umana. Che si andasse a una manifestazione, a una cena per raccogliere fondi, a un’assemblea di associazione, di una cosa si era sempre certi: c’era di tutto. Attivisti di lungo corso, politici da sinistra a destra, fervidi credenti di tutto lo spettro abramitico, librai, musicisti, ingegneri, disoccupati, medici, ex sindacalisti, esercenti, attori, professori, vegani.

Mancavano i giovani, solo quelli, io ero l’unica attivista sotto i 20 anni. Loro osservavano me e io osservavo loro. Ogni tanto ci scappava da ridere. Una risata che era preziosa, perché non c’era traccia di cinismo, era gioia per la realtà nella sua profonda, inspiegabile bizzarrìa.

L’azione di Ultima generazione contro il Senato ha provocato reazioni di vario tipo. Sicuramente è un modo efficace per rompere l’indifferenza mediatica, ma con risultati controproducenti. Si tratta a tutti gli effetti di un’azione di antiparlamentarismo, e a colpirmi è che fra le tante reazioni pubbliche non ci sia stata l’unica davvero pertinente, proprio quella riguardante la natura antiparlamentarista del gesto.

Il parlamento è scomparso dall’orizzonte collettivo al punto che nemmeno buttandoci sopra della vernice ci accorgiamo della sua importanza. E dire che è il cuore stesso della Repubblica italiana, il baricentro della politica democratica. Il parlamento ne esce delegittimato integralmente: da chi lo occupa, da chi lo imbratta, e dal popolo tutto che non si accorge della differenza strutturale fra questa azione e quelle contro le opere d’arte o le interruzioni del traffico.

Un’azione antiparlamentarista tradisce una concezione mostruosamente seria, monolitica, anti-ironica della realtà. Oppure, all’estremo opposto, una concezione cinica, come quella di chi voleva aprirlo come una scatoletta di tonno... ma il cinismo non ha nulla dell’ironia vera, quella che, come scriveva nel 1797 Friedrich Schlegel, produce uno scarto netto rispetto al finito e dischiude l’infinito. L’ironia, non per niente, era la più grande nemica del compagno Volo, uno dei protagonisti de Il tempo materiale di Giorgio Vasta (minimum fax, 2008), romanzo vertiginoso e mai troppo apprezzato, magistrale nel portare alla luce i profondissimi umani meandri dell’anti–politica e del terrorismo. L’ironia è leggerezza, è gioia per la bizzarrìa del mondo, forse addirittura (per il romantico Schlegel) disvelamento dell’assoluto, ma politicamente parlando è soprattutto il tratto sottile che divide la partecipazione democratica, con tutte le sue contraddizioni e variegatezze, dall’ambizione tragica della mobilitazione totale.

Era il 2012 quando muovevo i miei primi passi nella RSFC. Avevo 14 anni. Ora ne ho 24, e un po’ mi vergogno a dare consigli agli attivisti più giovani di me, manco fossi Matusalemme. Se qualcuno all’epoca mi avesse detto come avrei “dovuto” fare attivismo, mi sarei ribellata, e anche oggi, a seconda di come si pone, potrebbe starmi per lo meno poco simpatico. Non voglio dare consigli, preferisco raccontare come la vedo io, senza volermi per questo porre più in alto dei ragazzi di Ultima generazione.

Non cedere all’anti-politica

Condivido il senso di disperazione, l’ho descritto proprio sulle pagine di questo mensile. Ma attenzione a non cedere alle lusinghe (auto)distruttive dell’anti-politica, lo scrivo appositamente con il trattino perché l’anti-politica di cui parlo è un concetto un po’ diverso, nuovo, rispetto all’antipolitica cui ci siamo abituati negli ultimi anni. È espressione di un fuoco interiore tipicamente giovanile, ma è anche lo spettro dell’ideocrazia.

Ovvero, mettere in gioco il proprio corpo, le proprie emozioni, la propria vita, come strumento di ricatto, propedeutico alla realizzazione di una visione marmorea e inflessibile della società. È un fenomeno in apparenza molto simile alla domanda di giustizia universale portata avanti da tanti ragazzi, ma si differenzia per alcuni tratti che ne dispiegano la vera anatomia, e l’antiparlamentarismo, quindi l’anti-politica, è uno di questi.

Un grande storico italiano, Franco Venturi, diede alla luce nel 1952 la prima versione di uno dei più grandi capolavori della storiografia del Novecento, Il populismo russo, edito allora da Einaudi, ripubblicato nel 2021 da Mimesis. La sua grandezza stava anche nel metodo: evadere ogni prospettiva teleologica, nella consapevolezza che la storia è un farsi complesso che sfugge ai disegni granitici di qualsiasi ideologia. Come d’altronde lo è l’umanità. I grandi movimenti del passato, riletti oggi, mostrano aspetti che per chi li viveva in diretta sarebbero apparsi impensabili.

E altri ne mostreranno, impensabili per noi oggi. La rigidità perderà sempre la sfida con la realtà. Per vedere la realtà, o almeno quel poco che ci è concesso dalla nostra limitatezza, ci vuole per lo meno un pizzico di ironia. Per evadere dalla nostra personale prigione e cogliere, con gioia, un istante di infinito. Che ci ricorda che perdere il controllo, in fondo, non è così terribile come sembra, anche perché non lo abbiamo mai davvero avuto. La perdita del controllo è una delle più tremende angosce della giovinezza. Credo che la cura migliore per questa angoscia sia la partecipazione, più che la mobilitazione. Reciproca, contraddittoria. Il cuore della politica.

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