Una Trinità, una Trimurti, un Tridente, un Tripartito. È il format a tre che dal 1994 a oggi si è dato il centrodestra italiano, per vincere le elezioni nazionali e poi perdere la sfida di governo. Un tempo furono Silvio Berlusconi, Umberto Bossi, Gianfranco Fini, oggi sono Giorgia Meloni, Matteo Salvini e Berlusconi, finito in fondo alla fila, eppure è sua l'intuizione iniziale.

Il centrodestra nacque come coalizione spuria nelle notti di Arcore tra la fine del 1993 e l'inizio del 1994, quando il Cavaliere intuì che lo scontro elettorale non sarebbe stato solo tra il vecchio e il nuovo, ma anche tra la destra e la sinistra, le due famiglie che nella Prima Repubblica non avevano mai avuto la possibilità di vincere, con la Democrazia cristiana partito centrale che le assorbiva, le moderava, le neutralizzava.

La Coalizione per il centrosinistra è una maledizione, per il centrodestra è una ragione di vita, e di morte. Nel centrosinistra lo scontro si incipria, per dirla alla Enrico Letta, si maschera, si ammanta di schermature ideologiche, il centro e la sinistra, i riformisti e i radicali, chi ha l'agenda Draghi e chi no.

Nel centrodestra Lega e Forza Italia, che hanno costituito l'ossatura del governo di unità nazionale, stanno per candidarsi con Fratelli d'Italia, il principale partito di opposizione, senza un attimo di polemica, di discussione o di dibattito. La divisione tra leader che hanno fondato partiti personali ruota tra i loro rapporti, le ambizioni, le parabole, gli odi. Dal 1994 a oggi è la storia del centrodestra italiano, che vince nelle urne e perde al governo, per cedimento strutturale interno, senza possibilità di intervento per il centrosinistra.

Divisioni e ambizioni

Si è visto ieri, quando Berlusconi si è lanciato in avanti sul presidenzialismo e sulla richiesta di dimissioni per Sergio Mattarella. L'Alleato incombente ha fatto più male alla premier in pectore del centrodestra Meloni di tutti i minibus e le micro-coalizioni che sta faticosamente provando a costruire Letta. L'uscita è stata accolta con gelido silenzio, rovina l'operazione affidabilità che sta costruendo la leader di FdI, al pari della visita di Salvini a Lampedusa e della corsa al ribasso sulla flat tax. È il lampo delle future divisioni. Il centrodestra nei sondaggi è dato per vincente, ma non è una novità assoluta. Per tre volte ha già trionfato nelle urne nel 1994, nel 2001 e nel 2008. E si è infranto.

Rapido ripasso. Nel 1994 l'ingresso di Berlusconi in politica tenne insieme due leader che si detestavano, Bossi e Fini, con la trovata della doppia coalizione. Il Polo delle Libertà Forza Italia-Lega al Nord con il Polo del Buon governo Forza Italia-Alleanza nazionale al Sud conquistò 366 seggi alla Camera, contro i 213 della gioiosa macchina da guerra di Achille Occhetto e i 42 del Centro di Mino Martinazzoli e di Mario Segni, mentre al Senato la situazione era molto più incerta - 159 senatori - e per ottenere la fiducia servì il soccorso in aula quattro senatori del Ppi. Il primo governo Berlusconi cadde dopo sette mesi, per i colpi di Bossi («No al Berluskaiser») più che per l'avviso di garanzia della procura di Milano nei confronti del premier.

Durante la legislatura 2001-2006, con oltre cento deputati di vantaggio alla Camera, 368 contro 250, e quasi cinquanta senatori, 176 a 130, il governo Berlusconi arrivò alla fine senza traumi, salvo un rimpasto nel 2005, ma la legislatura fu segnata dallo scontro tra l'asse del Nord Berlusconi-Bossi, impersonificato dal ministro dell'Economia Giulio Tremonti, e il cosiddetto sub-governo guidato da Fini vice-premier e poi ministro degli Esteri, con la presenza determinante dell'Udc di Marco Follini.

Il culmine fu lo scontro in un vertice notturno tra Fini e Tremonti nel 2004, con espressioni british, «tu non capisci un cazzo di economia», «e tu non capisci un cazzo di politica», concluso con le dimissioni del super-ministro, oggi nome in testa all'agenda Meloni, all'epoca pupilla di Fini, mentre Guido Crosetto nel 2004 da relatore forzista della legge finanziaria si vide bocciare il suo lavoro dalla maggioranza al primo voto alla Camera.

Nessuna riforma fiscale, niente taglio delle aliquote, meno tasse per tutti restò uno slogan per i cartelloni sei per tre, così come il fantomatico piano per il Sud, il ponte sullo Stretto che oggi torna ad affacciarsi nei programmi elettorali, per non parlare della riforma della Giustizia. Anche la riforma della Costituzione, passata tra le ambiguità, venne bocciata da un referendum popolare nel 2006.

Scontri tra alleati

Nel 2008, un'altra vittoria della coalizione, il centrodestra comincia la legislatura con cento deputati di vantaggio sul centrosinistra, 344 contro 247, e più di 40 senatori, 174 a 133. Il format è in apparenza a due, Berlusconi è il leader del Popolo della Libertà, Bossi è il capo della Lega, ma nel Pdl è confluito Fini che ha preconizzato per il Cavaliere le comiche finali e si impegna per realizzare la profezia.

Fino alla scena madre dell'assemblea all'auditorium per beffa intitolato alla Conciliazione, in cui i due alleati si accapigliano quasi fisicamente, in una mattinata di sole primaverile, tra il rumore di piatti e posate per il buffet che riecheggia in sala stampa e l'anonimo regista dello streaming, il vero eroe della giornata, che fa roteare le telecamere in mezzo a insulti e ditini alzati, in quello che sembra un dramma shakespeariano, un processo stalinista, con Fini al posto di Bucharin, una pagina del “Nome della Rosa”, e invece è soltanto una cattiva puntata di “Amici”, con due ex coniugi che si accusano senza pudore. Del governo Berlusconi e del centrodestra non resterà più nulla, anche se il governo cadrà soltanto un anno e mezzo dopo, nell'autunno 2011 dello spread.

Quel giorno, il 22 aprile 2010, la ministra delle politiche giovanili del governo Berlusconi scrive un lungo articolo sul “Secolo d'Italia” per replicare a Flavia Perina, che dirige l'organo dei finiani. «Ho iniziato a fare politica in un partito che rappresentava alcuni principi e valori come l'amor di patria, la lotta alla mafia, ma anche la sacralità della vita, la difesa della famiglia naturale, l'opposizione al relativismo etico, una visione spirituale della vita, una scuola e una memoria condivisa», scrive Giorgia Meloni, che in quel momento ha compiuto da tre mesi 33 anni ed è al governo da due. «Nel Pdl questo sistema di valori ha trovato casa. Per questo mi ci riconosco e qualunque mia iniziativa politica sarà sempre orientata a difendere dentro il partito queste idee, non a sostituirle con altre. Altrettanto legittime, ma che non sento come le mie. Io non credo che le parole destra e sinistra siano prive di significato attuale».

Finti moderati

È in quel big bang che bisogna indagare per capire come sarà, o come potrebbe essere, il futuro centrodestra di governo. Nel 2012 dalle macerie di An di Fini nasce Fratelli d'Italia, nello stesso auditorium in cui Berlusconi provò a cacciare Fini. Nel 2012 finisce la lunga era di Bossi nella Lega e comincia la lunga marcia dell'eurodeputato semplice Matteo Salvini, considerato dai notabili del partito il più bravo mediaticamente e il meno dotato politicamente. Nel 2012, infine, tramonta Berlusconi, escluso poi dalle istituzioni un anno dopo dopo la condanna della Cassazione, ai sensi della legge Severino.

Per quasi trent'anni la storia del centrodestra italiano è stata una storia di rotture, al pari di quella del centrosinistra, anche se con minore immaginazione, e con un leader indiscusso capace di coprire tutte le anime. Spostando l'equilibrio verso il lato più estremo: sia a Bossi che a Fini è toccato in sorte, a turno, di essere più moderati del leader moderato. Anche Giorgia Meloni ha sperimentato la stessa sorte, durante la sua ascesa, a testimoniarlo sono le tante apparizioni dell'ex premier alle feste di Atreju, la fossa dei leoni dei devoti di Giorgia, in cui l’allora leader dei giovani di An ha cercato di arginare il capo di Forza Italia che giocava a scavalcare gli eredi del Msi a destra. Per tenerli nel ghetto, naturalmente.

Una volta, era il 2008, Berlusconi presidente del Consiglio lesse interi capitoli di un suo libro contro il marxismo e una ragazza dal pubblico lo interruppe: «Va bene la lotta al comunismo, ma vorrei sentirle dire qualcosa di più pragmatico». Un'altra volta, era il comizio finale del 2008 nella piazza del Pantheon, il settantenne Berlusconi, vestito come Tony Manero, urlava dal palco: «Votare per la sinistra significa più extracomunitari nelle nostre città! Volete una città con tanti campi nomadi e pochi campi sportivi? Convincete la vostra fidanzata che è di sinistra solo perché il nonno è stato partigiano!». Accanto a lui Giorgia Meloni taceva, erano toni e argomenti che lei non usava neppure all'epoca, figuriamoci oggi. La scena si è ripetuta due giorni fa, con l'uscita di Berlusconi su Mattarella. Una radicalizzazione che si abbatte su di lei, non su di lui che il giorno dopo può giurare di essere stato frainteso.

Un trio asimmetrico

La Trinità del 1994-2012 era di geometrica potenza, con un dominus indiscusso, anche perché i due comprimari, Bossi e Fini, a turno, non erano legittimati ad aspirare alla guida del governo. C'era una netta diversità di radicamento sociale e territoriale e di cultura politica, con confini definiti. Il Nord della Lega, partite Iva e piccole imprese, il centro-sud di An, pubblico impiego e pensionati. La rivoluzione padana della Lega, anti-statalista e nelle intenzioni libertaria o addirittura partigiana e resistenziale, e il post-fascismo degli eredi del Msi. In mezzo, Berlusconi, un capo pragmatico, con un'ideologia feroce e onnicomprensiva: la sua persona. E convincenti strumenti mediatici e patrimoniali per tenere a bada e fidelizzare gli altri leader e partiti della coalizione.

Il trio che muove alla conquista dell'Italia nel 2022 è invece asimmetrico. I partiti che lo compongono sono più simili tra loro, ma non c'è un leader indiscusso che fa la sintesi. Si è visto ogni volta che negli ultimi anni sono stati costretti a cercare candidati comuni per le città e le regioni. È vero che da decenni il centrodestra unito governa i territori dal Nord al Sud, ma sulla base dell'antico patto di sindacato scritto negli anni Duemila.

Quando nel tempo nuovo di Meloni e Salvini i tre partiti hanno dovuto indicare un nome di tutti i leader del centrodestra si sono paralizzati nei veti reciproci e hanno puntato sul candidato al ribasso, che non scontentasse nessuno.

Ecco spuntare i Michetti per Roma e i Bernardo per Milano, nomi che avrebbero stroncato la carriera di chiunque si fosse spinto a candidarli alla guida delle principali città italiane, prima del disastro elettorale delle ultime amministrative a Verona o a Catanzaro. In un quadro generale di incomunicabilità reciproca: i messaggini mai spediti tra Salvini e Meloni, l'ostilità della leader di FdI verso gli incontri conviviali di Villa Grande.

Tra nordismo e sovranismo

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La questione non può essere ridotta soltanto alla rivalità personale tra Meloni e Salvini. La contesa è sul termine chiave della politica europea e occidentale degli ultimi anni, sovranità. Come spiega Paolo Gerbaudo (“Controllare e proteggere”, Nottetempo), può definire sia la sovranità nazionale, da difendere rispetto all'invasione straniera (l'Europa, le multinazionali, i migranti), sia come sovranità popolare, da tutelare rispetto alle élites tecnocratiche, modello Draghi.

La Lega di Salvini ha provato tra il 2015 e il 2020 a trasformarsi in Fronte nazionale, modello Marine Le Pen, fuori dai confini tradizionali della sua rappresentanza, territoriali (cercare consensi anche al Sud) e ideologici (da partito né di destra né di sinistra, com'era la Lega delle origini, simile al Movimento 5 Stelle, a forza collocata a destra). Un'operazione fallita.

Nello stesso periodo, Fratelli d'Italia ha tentato il movimento opposto, espandersi al Nord, darsi una nuova identità politica, il conservatorismo in sostituzione del post-fascismo e del nazionalismo, un partito omnibus simile a quello che fu la Forza Italia dello stato nascente, in cui confluiscono infatti alcuni volti simbolo di quella stagione, da Tremonti a Marcello Pera.

Con il recupero di alcune polemiche del passato, ad esempio la meritocrazia da sbandierare contro il reddito di cittadinanza che nella visione di Meloni sarebbe un residuo dell'egualitarismo sessantottino. In mezzo c'è Forza Italia, con il suo leader di sempre e la sua classe dirigente invecchiata, vedi Renato Schifani recuperato come candidato alla presidenza della regione Sicilia, ma anche Letizia Moratti in Lombardia. Il cambiamento non c'è più.

Nel frattempo, è mutato il mondo. Negli anni Novanta e Duemila il centrodestra italiano interpretava il vento neo-liberista. Berlusconi, che nel 1991 aveva confessato a Ezio Mauro di voler fondare in Italia un partito reaganiano, ha rappresentato per quasi tre decenni gli animal spirits insofferenti ai «lacci e lacciuoli» della burocrazia, si è posto come il custode delle tasche degli italiani rispetto al fisco-Dracula, con una idea delle regole e della legalità alquanto minima, al di là delle vicende giudiziarie personali del leader, con venature anarcoidi.

La Lega ha visto nella secessione, nel federalismo, nella devolution e poi nell'autonomia la strada maestra per imbrigliare lo Stato centrale, considerato nemico. Per An e la destra sociale Stato era soprattutto assistenzialismo. Il risultato è che la cultura unificante del centrodestra per decenni si è potuta riassumere nello slogan “più società meno Stato”. Tradotto in italiano, sia chiaro. Secondo quanto descritto dal Censis nel lontano 1981, il Paese dell'individualismo protetto, «la società della borsa a due tasche» che vorrebbe insieme «il massimo dell'individualismo e il massimo della protezione».

Dopo la recessione del 2007-2008, la pandemia, la guerra in Ucraina, e la Brexit e il trumpismo, in Occidente e in Europa ritorna lo Stato, è lo Stato che organizza la protezione dei cittadini dal virus e dagli effetti economici della pandemia, è lo Stato che gestisce i fondi del Piano nazionale di ripresa e resilienza, è lo Stato che si muove sullo scacchiere internazionale sul terreno delle alleanze, delle spese militari e dell'autonomia energetica, dove conta il monopolio della forza e poco l'auto-organizzazione della società.

Lo Stato, il suo ruolo nelle alleanze internazionali, in Europa e nel Mediterraneo, la riforma dei rapporti tra il centro e i territori, il ripensamento del welfare, vale ben più di una campagna elettorale. La stessa proposta di presidenzialismo può essere un tassello di questo processo di riforma, all'interno di un ripensamento democratico di tutte le istituzioni, oppure un potenziale acceleratore di disgregazione, come si sta rivelando in questi giorni il taglio dei parlamentari. Ma nel documento programmatico del centrodestra la parola Stato compare solo tre volte, una delle quali per sostenere che l'onere della prova nei contenziosi fiscali va caricata sullo Stato. Al suo posto, fin dalle prime parole, compare la parola Patria. Che è molto più impegnativa, ma anche più generica, più ambigua.

Patria o Stato?

È un richiamo fin troppo forte e esplicito. Per evitare di tornare al Novecento si salta all'indietro, fino all'Ottocento. Ma nominare la Patria, e non lo Stato, serve a evitare il dilemma sul neo-statalismo per un centrodestra che in alcuni suoi esponenti negli ultimi anni ha flirtato con settori della società anti-Stato, i no vax ma anche i cittadini che vogliono fare da sé sul tema delicato della sicurezza, vedi la legge sulla legittima difesa. L'idea è uno Stato che c'è fin troppo laddove dovrebbe fare un passo indietro, dove è la coscienza dei singoli a decidere sul fine vita o sulle unioni omosessuali o sulla discriminazione delle diversità, e uno Stato che non c'è dove dovrebbe esserci per azionare meccanismi di protezione sociale, di redistribuzione delle risorse, di coesione sociale dove prevalgono le fratture.

È l'ambiguità tra conservazione e cambiamento, già segnalata qui da Marco Follini, che merita di essere discussa nelle prossime settimane, in una campagna elettorale che per il centrodestra si annuncia in discesa, vista la confusione degli avversari.

I tre partiti del centrodestra sono più simili, più omologati tra loro, ma non hanno un leader capace di fare sintesi. Si torna all'escamotage del partito più votato che avrà il diritto di indicare il premier, una mossa già sperimentata nel 2018, quando andò malissimo, perché il centrodestra non riuscì a offrire a Mattarella il nome di Salvini che era arrivato primo e il Capitano preferì cambiare schieramento e trasferirsi al Viminale insieme al Movimento 5 Stelle. Oggi Meloni deve fare molto di più.

Allargare le percentuali della sua lista fino a toccare il trenta per cento dell'antica Forza Italia, alle elezioni europee del 1994, o della Lega di Salvini nel 2019. E poi riscrivere il patto di sindacato, a partire dalla sua leadership proiettata verso il governo.

Un’operazione che si può fare solo a danno degli altri due partiti della coalizione. La competizione non allarga il campo, ma lo restringe e l'entità della vittoria così ampia sarà un problema in più da gestire. Per questo la marcia è ancora lunga e insidiosa e piena di serpenti sotto le foglie. Nel giardino di casa.

 

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