Giorgia Meloni ha vinto la prima battaglia: la presidenza del Senato è andata a Ignazio La Russa, alla prima votazione e con una maggioranza blindata di 116 voti, ben oltre quella richiesta. La sola pecca è che a votarlo è mancata Forza Italia ed è arrivata la stampella di un pezzo significativo dell’opposizione.

Quella che doveva essere la prova di forza di Silvio Berlusconi al suo esordio in Senato dopo 9 anni si è trasformata nell’affondo di Meloni a Forza Italia. La premier in pectore, infatti, ha forzato per dimostrare di non essere ricattabile e che, se serve, è in grado di trovare i voti in aula anche fuori dall’alleanza di centrodestra.

Del resto, mai Meloni avrebbe messo a rischio un nome di peso come quello di La Russa se non fosse stata sicura di poterlo far eleggere al primo scrutinio.

Le ore precedenti al voto sono state decisamente agitate a palazzo Madama. Quasi subito è circolata la voce che Forza Italia non avrebbe partecipato al voto per dare un segnale di rottura a Meloni e così è stato, tranne che per i due voti simbolici dello stesso Berlusconi e della presidente del Senato uscente, Elisabetta Casellati.

Alla base della decisione, il veto per un ministero alla fedelissima, Licia Ronzulli, ma non solo: «Il Cavaliere non gioca una partita personale, ma di principio. Il suo è un segnale di bocciatura al metodo Meloni per comporre tutto l’esecutivo», è la spiegazione di un senatore di FI. «La sfiducia a Ronzulli è una sfiducia a me e al mio partito», sarebbero le parole di Berlusconi.

Nell’incontro della sera precedente, infatti, Meloni avrebbe detto no non solo a Ronzulli, ma anche a dare a FI i ministeri di Giustizia e Sviluppo economico, che comprende anche le Telecomunicazioni. La rabbia di Berlusconi per un accordo per nulla soddisfacente si è tradotto nella decisione di far mancare i voti del suo partito all’elezione di La Russa.

La prova di forza, però, non gli è riuscita. Alla mancanza di voti azzurri hanno sopperito 17 senatori della minoranza, assicurando l’elezione diretta all’ex missino, che ha preso il posto – regalandole un mazzo di rose bianche - della senatrice a vita, Liliana Segre, che ha presieduto ai lavori. Nel suo discorso di insediamento, ha ringraziato anche «chi mi ha votato e non fa parte della maggioranza».

Lo scontro con FI

Al termine della votazione, Berlusconi ha fatto l’analisi della sconfitta di questa battaglia. «Avevamo fatto i calcoli che lo avrebbero eletto lo stesso», ha detto al Corriere della Sera, ma «Abbiamo voluto dare un segnale che non si devono mettere veti sulle persone perché sono inaccettabili». Ha però confermato che la trattativa sui ministri «è finita» e che «Ronzulli non avrà un ministero».

Tradotto: Berlusconi aveva intuito che Meloni aveva già raccolto i voti fuori dalla maggioranza per assicurare l’elezione di La Russa, ma FI ha comunque portato avanti la petizione di principio per dare un segnale. Il risultato è che in ogni caso Ronzulli non sarà ministra, ma anche che FI e il suo leader non hanno intenzione di venire messi all’angolo. Del resto, è il ragionamento, la legislatura è lunga e i voti dell’opposizione hanno sempre un prezzo.

Berlusconi ha fatto anche i nomi degli incriminati di sostegno esterno: «Azione e i senatori a vita». Sia Matteo Renzi che Carlo Calenda hanno ufficialmente negato, ma da fonti interne è trapelato che qualche voto dal terzo polo è arrivato sicuramente. Per arrivare a 17, probabilmente, sono venuti in aiuto i senatori del Centro democratico e gli autonomisti, oltre a qualche Cinque stelle.

A uscirne con le mani pulite, invece, è la Lega di Matteo Salvini: passo indietro di Roberto Calderoli e voto compatto su La Russa, compensato da un generoso incasso in termini di promessa di ministeri. Anche da via Bellerio è trapelato il fatto che era nell’aria che i voti per La Russa ci fossero anche senza FI. Segno che la contromossa di Meloni è stata organizzata nel dettaglio e condivisa con l’alleato che ora viene considerato più affidabile.

La ritorsione

L’interrogativo, ora, è cosa succederà nella maggioranza. Un’elezione così rocambolesca della seconda carica dello stato non apre la legislatura sotto i migliori auspici. Tuttavia, la mossa di FdI è servita sia a ridimensionare l’ego di Ronzulli, la cui insistenza ha infastidito non poco Meloni convincendola a mantenere il suo veto e fortificandola nella convinzione che averla in cdm sarebbe stato un problema.

Forza Italia ne esce ridimensionata nel suo ruolo dentro l’alleanza ma anche molto divisa al suo interno: molti, dentro al partito, non hanno gradito l’atteggiamento di Ronzulli e la volontà di andare allo scontro diretto con Meloni. Anche perchè fonti di FdI hanno già fatto trapelare che l’atteggiamento degli azzurri «potrebbe incidere sulle scelte delle nomine che ci saranno per l'ufficio di presidenza».

Foto Mauro Scrobogna/LaPresse 13-10-2022 Roma (Italia) Politica - Senato prima seduta della XIX legislatura - elezione Presidente - Nella foto: il leader di Forza Italia FI Silvio Berlusconi rientra nell’ Aula del Senato dopo quasi nove anni dal voto che il 27.11.2013 lo dichiarò decaduto dalla carica di Senatore, accanto Licia Ronzulli 10-13-2022 Rome (Italy) Politics - Senate first session of the 19th legislature - President election - In the photo: Forza Italia FI leader Silvio Berlusconi returns to the Senate chamber after almost nine years from the vote that on 27.11.2013 declared him forfeited from the office of Senator, near Licia Ronzulli

Tuttavia, la stessa leader di FdI sa che, dopo lo scontro, serve la mediazione. Quella al Senato è stata una vittoria tattica, ma la strategia di medio-lungo periodo per un esecutivo che deve formalmente ancora nascere richiede di ricucire con il Cavaliere. La richiesta che continua ad arrivare da villa Grande è quella di cinque o sei ministeri.

La roulette delle caselle ancora aperta, ma i preferiti rimarrebbero Turismo, Esteri, Istruzione, Giustizia e Sviluppo economico, ma tra i nomi dei possibili ministri, accanto a quelli di Francesco Paolo Sisto e Anna Maria Berinini, sono spuntati quelli di Alessandro Cattaneo e Giorgio Mulè.

Con la chiusura anche della presidenza della Camera si dovrebbero chiudere anche le caselle ministeriali. Certo è che la maggioranza, se non indebolita perchè ha già scoperto di avere solerti “stampelle” d’aula, esce dal Senato divisa.

 

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