Il collasso delle forze armate e delle strutture governative afghane, allevate, nutrite e protette dalla coalizione occidentale, è stato così repentino da rendere difficile un’analisi fredda delle conseguenze future sugli equilibri geopolitici. Gli attori coinvolti nella regione hanno prospettive diverse. Vediamoli. La Cina potrebbe entrare, per la prima volta nella storia, in questo scacchiere.

La porta d’ingresso è economica: il dragone garantisce agli afghani un ampio sostegno economico e in cambio la sua via della Seta può attraversare un territorio finora impraticabile e raggiugere più rapidamente i porti pakistani sull’Oceano indiano. Questo matrimonio di interessi incontra però un ostacolo: i Talebani potrebbero essere tentati dal richiamo dei loro fratelli musulmani nella regione confinante dello Xinjiang, una comunità che viene duramente repressa dalle autorità di Pechino.

Il dilemma tra interessi economici e buon vicinato con il gigante cinese e solidarietà religiosa-ideologica con i fedeli oppressi rimane aperto. Improbabile che la Russia abbia da temere dai nuovi padroni dell’Afghanistan. Il paese è geograficamente lontano e ha saputo gestire alla sua maniera (per usare un eufemismo) le turbolenze dei musulmani ceceni nel Caucaso.

Difficile pensare che quella regione si infiammi di nuovo. Sono piuttosto gli stati confinanti a poter risentire degli eventi in quanto hanno già sperimentato nel recente passato infiltrazioni terroriste dal paese dei papaveri. In Uzbekistan, in particolare, la fertile valle di Fargana è stata a lungo teatro di azioni di destabilizzazione da parte di estremisti islamici che avevano il loro santuario in Afghanistan.

Il Kashmir

Il Pakistan viene invece considerato generalmente al riparo da intromissioni turbolente nel suo territorio. I pachistani, attraverso il loro potentissimo servizio segreto Isi, hanno sempre azionato diverse leve in territorio afghano: a volte assicuravano connivenza e protezione (ricordiamo che Osama Bin Laden era in Pakistan quando fu catturato e ucciso dalle forze speciali statunitensi); altre volte, dovendo soddisfare in qualche modo l’alleato e generoso finanziatore americano, intervenivano facendo qualche retata o offrendo preziose informazioni agli eserciti occidentali. Per i militari di Karachi, autentici master of the play del paese vista l’evanescenza del primo ministro Imran Kahn, non cambia nulla. Sanno con chi hanno a che fare, e come gestirlo.

E forse hanno anche guidato la cavalcata talebana verso Kabul. C’è solo un interrogativo. I talebani hanno ora armi in abbondanza e nella grande maggioranza credono di aver raggiunto il loro obiettivo da soli: si sentono emancipati dalla tutela pachistana, con tutti i risvolti possibili del caso. Il vero punto critico, a cui si guarda poco, riguarda l’Indi, che ha un nervo scoperto potenzialmente sollecitabile dagli eventi. Riguarda la situazione in Kashmir.

Questa regione a dominanza musulmana, ma anche origine di molti bramini di primaria importanza nella storia religioso-filosofica e politica indiana, a partire dal primo ministro post indipendenza, Jawaharlal Nehru, vive da decenni uno stato di tensione fortissimo con il governo centrale. I kashmiri, sostenuti dal Pakistan, rivendicano l’indipendenza, anche ricorrendo alle armi. Due anni fa, nel febbraio del 2019, misero a segno un clamoroso attentato contro militari indiani attaccando un convoglio che uccise 40 soldati e ne ferì 35.

Questa azione creò un enorme scalpore nel paese e sollevò un’ondata nazionalista tale da consentire al premier uscente Narendra Modi, leader del partito induista Bjp, di recupere consenso e tornare al potere alle elezioni della primavera successiva. E una volta riconfermato alla premiership Modi ha usato il pugno di ferro contro il Kashmir mettendo agli arresti domiciliari centinaia di politici locali, bloccando le comunicazioni telefoniche e internet, chiudendo gli accessi alla regione e sospendendo lo statuto di autonomia – peraltro molto ampio – garantito fino ad allora a quella regione. Recentemente la morsa è stata allentata, ma il Kashmir rimane una spina nel fianco del gigante indiano.

La suscettibilità di Delhi su questa questione è tale che una ripresa delle attività terroriste fomentate dall’esempio talebano, con il sospetto di essere sostenute in maniera più o meno coperta del Pakistan, rischia di incendiare un’area dove sono presenti armamenti nucleari dall’una e dall’altra parte. Non dimentichiamo che dopo l’attentato del febbraio 2019, l’India bombardò un santuario di terroristi in territorio pakistano. Per fortuna la reazione pachistana fu simbolica e tutto si chiuse lì. Ma se c’è una questione insidiosa per equilibri nell’area non è quella dello Xinjiang, bensì quella del Kashmir, nonostante la differenza abissale di trattamento che le due comunità ricevono dai rispettivi governi centrali. Un ritorno di fiamma dell’integralismo islamico attizzato dai talebani può indirizzarsi verso vari teatri. Ma il più pericoloso per equilibri geopolitici si trova sulle montagne himalayane.

 

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