Il prossimo incidente diplomatico di papa Francesco potrebbe avvenire nei Musei Vaticani. A pochi mesi di distanza dalla sua visita di riconciliazione con i popoli nativi canadesi sradicati e abusati nelle scuole residenziali cattoliche, la delegazione delle Prime nazioni, Inuit e Métis ha salutato con frustrazione la scelta del papa di restituire i tre marmi del Partenone ad Atene: «Non esiste alcuna politica o prassi di rimpatrio o restituzione nel nostro caso.

Ad oggi i Musei Vaticani non si sono impegnati nel rimpatrio di beni sacri alle comunità indigene nonostante le richieste. I tentativi di verità e di riconciliazione del papa non possono essere completi senza un profondo riconoscimento della violenza missionaria coloniale» spiega a Domani Gloria Bell, storica di origini Métis, docente alla McGill University e ricercatrice presso l’American Academy in Rome.

Donazione religiosa

Il casus belli è stata la scelta del pontefice di restituire tre marmi sottratti dal Partenone nell’Ottocento e confluiti nelle collezioni pontificie. Sono i frammenti di un fregio lungo 160 metri che correva lungo il tempio eretto sull’Acropoli nel V secolo a.C. e trafugati quando l’ambasciatore inglese presso l’Impero ottomano Lord Elgin ne portò la parte più consistente al British Museum.

Nella dichiarazione ufficiale, rilasciata pochi giorni fa, la Santa Sede ha voluto chiarire che la restituzione non è stata frutto di una decisione bilaterale fra i due stati, ma di una scelta del papa stesso, che li ha voluti donare all’arcivescovo di Atene Ieronymos II «a sostanziale prova del sincero desiderio di proseguire il cammino ecumenico per la testimonianza della verità».

Una donazione religiosa – si sono affrettati a spiegare i Musei Vaticani – di reperti legati a un monumento di proprietà dello stato ellenico, che ha gettato benzina sul fuoco nelle trattative fra la Grecia e la Gran Bretagna. I primi di dicembre, infatti, sono  stati divulgati gli incontri segreti fra il primo ministro greco Kyriakos Mitsotakis e il presidente del British Museum, George Osbourne, per la restituzione dei marmi ateniesi, terminati con un nulla di fatto.

Il tesoro nascosto

Ma la restituzione voluta dal papa, malgrado l’entusiasmo suggerito dalle comunicazioni ufficiali, non ha lasciato indifferenti i gruppi indigeni canadesi, che da tempo chiedono la restituzione dei loro manufatti confluiti nel museo etnologico Anima Mundi. Secondo i Musei Vaticani, si tratta di donazioni. Per i gruppi nativi è il contrario: «Descrivere le collezioni etnologiche vaticane come "doni" non affronta il fatto che i missionari cattolici, su ordine del papa, sequestrarono manufatti in circostanze coercitive per l'Esposizione missionaria vaticana del 1925» spiega Bell.

La collezione nasce con l’esposizione universale missionaria, promossa da Pio XI in occasione del Giubileo del 1925: la finestra ideale per mostrare l’attività missionaria della chiesa nel mondo. Come teorizzava l’antropologo francese Marcel Mauss, presso i popoli indigeni il dono serve a rafforzare un legame, anche di natura simbolica.

Ma in questo caso, spiega la ricercatrice, «la parola "dono" copre una storia di costrizione e violenza missionaria. I missionari hanno sfruttato i bambini indigeni e le comunità indigene per glorificare il papa e hanno inviato qualsiasi cosa relativa agli stili di vita indigeni, comprese opere d'arte sacre e secolari, oggetti cerimoniali e cultura materiale».

Sono migliaia i reperti etnologici oggi in Vaticano, alcuni chiusi nei magazzini e neppure esposti nella sezione Anima Mundi che, malgrado l’attenzione richiesta del papa, resta quasi nascosta tra i giardini e la caffetteria, con poche indicazioni esplicative e defilata rispetto alle statue classiche e i dipinti dell’arte europea: «La collezione è vasta con migliaia di oggetti culturali prelevati dalle comunità indigene. Ogni appartenenza deve essere attentamente considerata. Ne ho analizzati diversi e ho trovato corrispondenza missionaria, fotografie e altre prove d'archivio che non erano doni» spiega Bell, che ha dedicato una ricerca dettagliata sull’appropriazione vaticana dei reperti indigeni.

Il silenzio dei Musei

Interpellati per un commento sulla restituzione dei marmi ateniesi, i Musei Vaticani hanno preferito non rispondere, sottolineando il carattere personale dell’iniziativa pontificia.

Una riservatezza che tradisce il timore di un precedente: il fatto che si specifichi che si tratta di una donazione religiosa e non di un accordo fra stati, lo confermerebbe: «Ho scritto al papa della mia ricerca così come a dignitari canadesi. Non ho ricevuto risposta» puntualizza Bell. Quando una delegazione di gruppi nativi è stata invitata in Vaticano per incontrare papa Francesco prima del suo viaggio, le è stata mostrata una selezione di reperti conservati nei depositi. Cassidy Caron, a capo della delegazione Métis, ne ha chiesto la restituzione.

Gloria Bell conosce bene quei reperti: «Penso al kayak Inuvialuit o alla cintura di wampum Haudenosaunee con le chiavi di San Pietro, che si riferisce più ampiamente alle relazioni reciproche tra la chiesa cattolica e Haudenosaunee – la confederazione dei popoli Irochesi, ndr. Tuttavia, questa reciprocità non è onorata nell'attuale metodo di conservazione e nella totale mancanza di consultazione e comunicazione con le comunità e i curatori indigeni.

Le perline delle donne Cree e Métis sono anche potenti simboli della presenza indigena e dell'eredità creativa in Vaticano che sono state nascoste per così tanto tempo. Le popolazioni indigene e i professionisti museali non sono invitati a visitare e ricercare la collezione e questo presenta una grande discrepanza tra la retorica della verità e della riconciliazione e la prassi attuale».

Per i popoli nativi, la restituzione non sarebbe solo un atto dovuto, ma anche coerente a quel cammino di guarigione che papa Francesco ha inaugurato lo scorso luglio in Canada e che, per molti, non può essere sanato solo a parole: «Non dimentichiamoci che papa Pio XI nel 1925 parlò dei manufatti come dei "trofei" del suo progetto missionario. L'inizio del ventesimo secolo a Turtle Island - termine letterario indigeno per il Nord America - è stato uno dei più violenti, distruttivi e dannosi per le comunità indigene a causa del lavoro dei missionari cattolici che tentavano di sradicare ogni traccia di cultura, identità, lingua indigena e lo spirito dei bambini e delle comunità indigene. I manufatti sono testimoni e marcatori di questa violenza. L'attuale mostra Anima Mundi non discute di questa eredità e gli artigiani e le comunità indigene non sono menzionati. Questa strategia espositiva di non nominare gli artigiani perpetua la violenza, l'incomprensione e la negazione della storia coloniale della collezione».

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