È un viaggio alla fine del mondo quello che papa Francesco si appresta a compiere in Canada dal 24 al 30 luglio prossimi, e non solo geografico. Dieci ore di volo, nove discorsi in programma, sette incontri con i popoli nativi – incluse le funzioni religiose al Commonwealth Stadium di Edmonton e al santuario di Lac Sainte Anne – e sei località da visitare in sei giorni danno la misura del viaggio più difficile del suo pontificato.

Nessun primato come in Iraq, poiché il paese è stato già visitato a più riprese da papa Giovanni Paolo II. Eppure, il viaggio di Wojtyła non può essere più distante da quello di Bergoglio, che appena eletto ha detto di essere venuto dalla «fine del mondo» e che domenica varcherà la fine di un mondo sociale e culturale, in gran parte alimentato dalla stessa chiesa cattolica.

Nel Canada di oggi non c’è traccia dell’entusiasmo espresso dal gesuita Louis Laurendeau all’indomani della visita di papa Giovanni Paolo II: «Noi eravamo dubbiosi circa l’avvenire della chiesa. Egli ci ha indicato una strada da seguire» (intervista a Radio vaticana, 20 settembre 1984). Quarant’anni dopo quella visita, la chiesa è al collasso: secondo Statistic Canada, nel 1985 il 51 per cento dei cattolici maggiorenni andava in chiesa almeno una volta al mese. Trent’anni dopo era la metà (26 per cento).

Il più grande mea culpa

Papa Francesco percorrerà questa faglia, resa ancora più drammatica dalla tensione tra la sua salute non proprio ottimale e il carattere impegnativo di un viaggio che, dal clima di Alberta mitigato dal vento di chinook, alle temperature rigide del Nunavut, lo proverà fisicamente.

Eppure, è stato lui stesso a sottolineare il tono penitenziale del suo viaggio: «Un efficace processo di risanamento richiede azioni concrete» e «passi per la ricerca trasparente della verità e per promuovere la guarigione delle ferite e la riconciliazione» ha dichiarato lo scorso 1° aprile, chiudendo la cinque giorni di udienze con le delegazioni indigene giunte in Vaticano per chiedere il mea culpa della chiesa. Per questo, Francesco ha voluto mettere i popoli indigeni destinatari dell’atto di scuse pubblico più imponente della chiesa di Roma al centro del suo viaggio: i rappresentanti delle Prime Nazioni, dei Métis e degli Inuit, chi frequentò le scuole residenziali, vittime della colonizzazione.

Dal rapporto stilato dalla Commissione canadese per la verità e la riconciliazione nel 2015, è emerso che oltre tremila bambini nativi sono morti nelle scuole residenziali cattoliche gestite dai missionari e dal governo canadese tra il 1870 e il 1997. Sono cifre al ribasso: per evitare spese eccessive, fino agli anni Ottanta era il Dipartimento federale ad autorizzare la tumulazione in fosse comuni.

Il papa decolonizzatore

Gilda Sosay, membro della Samson Cree Nation, ha definito il viaggio del papa «un cammino di guarigione». Archie, 60enne nativa Gaméti, dice: «Molti si sentono derubati dalla chiesa per ciò che è successo nelle residential school. Per questo, alcuni credono che non bastino le parole, ma fatti concreti. Anch’io ho frequentato quelle scuole. Ricordo che un’estate tornai in famiglia e fu un trauma, perché non capivo più la loro lingua e non riuscivo ad orientarmi. Fu mio nonno che, in una settimana nella steppa, mi ricondusse alla nostra cultura».

La parola «sradicamento» rimarca quanto il papa stesso aveva ammesso pochi mesi fa, parlando di «azione omologatrice» della chiesa: «Il vostro albero che porta frutto ha subito una tragedia: quella dello sradicamento. La catena che ha tramandato conoscenze e stili di vita, in unione con il territorio, è stata spezzata dalla colonizzazione, che senza rispetto ha strappato molti di voi dall’ambiente vitale e ha provato ad uniformarvi a un’altra mentalità».

Solo un papa proveniente dall’America latina, dove le strutture politiche e le tassonomie sociali sono state regolate nei secoli da una visione eurocentrica e colonizzatrice, può comprendere tutto il peso della «colonizzazione ideologica» subita dai popoli nativi. Nei suoi tre viaggi in Canada, Giovanni Paolo II ha trattato marginalmente la questione. Nel messaggio radiotelevisivo lanciato nell’84 dall’aeroporto di Yellow-Knife, il papa ha ammesso: «La storia ci documenta con chiarezza come nei secoli la vostra gente sia stata ripetutamente vittima dell’ingiustizia ad opera dei nuovi arrivati i quali, nella loro cecità, spesso considerarono inferiore la vostra cultura», salvo poi omettere le mancanze delle scuole residenziali, alcune già note. Si è dovuto attendere sette anni per la prima, forte richiesta di perdono da parte della congregazione degli Oblati di Maria immacolata, la più coinvolta nel caso: «Noi domandiamo perdono per l’esistenza stessa delle scuole, riconoscendo che l’abuso maggiore non è stato ciò che è avvenuto nelle scuole, ma che le scuole stesse sono esistite».

Un trauma intergenerazionale

Per i popoli nativi, solo la presenza fisica del papa può favorire il processo di riconquista di uno spazio cancellato per decenni. Mary Adele ha 85 anni ed è nativa della comunità Wha-ti: «Il fatto che il pastore della chiesa venga da noi a scusarsi per le violenze perpetrate in passato può aiutare molti di noi. Rimane il fatto che chi ha subito violenze non può uscire, se non personalmente, dal tunnel della sofferenza. Anch’io ho subito tante forme di violenza nelle residential school, bloccata dalla rabbia verso la chiesa e Dio. Ma poi ho deciso che non potevo andare avanti così».

Monsignor Jon Hansen, vescovo della diocesi di Mackenzie-Fort Smith, aggiunge: «Il punto è che le violenze subite da chi ha frequentato le residential school hanno generato una sorta di trauma intergenerazionale. Per esempio, chi ha subito un trauma, spesso, è finito nella spirale dell'abuso di alcool o di sostanze e, a sua volta, ha trasmesso il suo malessere con la violenza sui propri figli. Per guarire servono senz’altro progetti di accompagnamento e counseling, per questo le scuse formali devono essere il primo varco di un vero e proprio cammino che ci coinvolga tutti, insieme, rinnovando anche il nostro modo di essere chiesa». Mai come in questo, che è il suo 56esimo viaggio apostolico, papa Francesco realizza quell’azione internazionale tradotta anzitempo dal gesuita Antonio Spadaro, uno dei primi interpreti della politica internazionale del pontefice: «Una visione spirituale che si nutre di un profondo senso della catastrofe possibile e delle forze del male in azione, e nello stesso tempo di una fiducia unica nel mistero di Dio».

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