«Dialogo e fraternità sono i due fuochi essenziali per superare la crisi del momento presente», diceva papa Francesco all’inizio dell’anno quando, davanti al corpo diplomatico, tracciava le coordinate della sua politica estera. Il conflitto russo in Ucraina e le proteste in Iran hanno, però, sollevato dubbi sul ruolo diplomatico della Santa sede. È indubbio che Francesco negli anni si sia confermato l’uomo dei ponti con il mondo musulmano e le minoranze. Ciononostante, l’attuale situazione dell’Iran, percosso dalle violenze a seguito delle proteste del velo contro il regime teocratico, interroga sul silenzio del papa che, davanti alle violazioni sistematiche dei diritti umani, non si è mai risparmiato in appelli.

Tenendo a mente il discorso d’inizio anno, basti citare la Siria «dove ancora non si vede un orizzonte chiaro per la rinascita del paese», lo Yemen «una tragedia umana che si sta consumando da anni in silenzio, lontano dai riflettori mediatici e con una certa indifferenza della comunità internazionale», la regione del Sahel dove occorre «ritrovare la via della riconciliazione e della pace attraverso un confronto sincero che metta al primo posto le esigenze della popolazione», il Myanmar, verso cui «non si può restare indifferenti di fronte alle violenze che insanguinano».

La diplomazia soft

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Nel caso dell’Iran, al contrario, il papa non si è espresso. Un interrogativo per il pontefice che, più dei suoi predecessori, si è speso personalmente nel dialogo con il mondo musulmano.

Ha visitato paesi come la Turchia, il Marocco, l’Azerbaijan, gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrein. Primo papa a visitare l’Iraq, nella città santa di Najaf Bergoglio ha incontrato il grande ayatollah Ali al-Sistani, fra le più importanti autorità musulmane sciite: un importante punto nel dialogo con il mondo sciita, storicamente meno disteso e più silenzioso di quello sunnita, rappresentato Ahmad Al-Tayyeb, la suprema autorità teologica sunnita che ha firmato con Francesco il documento di Abu Dhabi sulla Fratellanza umana.

È stato lui, l’imam di Al-Azhar che, nel recente viaggio apostolico nel Bahrein, davanti a Francesco ha condannato la strumentalizzazione politica della religione: «Dobbiamo guardarci dal cadere nella trappola di compromettere la stabilità delle patrie e di sfruttare la religione per alimentare il fuoco dei sentimenti nazionalistici e ideologici». Parole dure, che hanno chiamato in causa la teocrazia dell’Iran senza il bisogno di menzionarla esplicitamente.

I rapporti con l’Iran

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In questi anni, la Santa sede ha definito i suoi rapporti con l’Iran come «cordiali». Nel 2016, dopo aver ricevuto per 40 minuti l’allora presidente iraniano Hassan Rouhani, Bergoglio aveva ricordato: «i valori spirituali comuni e il buono stato dei rapporti tra la Santa Sede e la Repubblica Islamica dell’Iran […], la promozione della dignità della persona umana e della libertà religiosa». Sei anni dopo, gli equilibri politici nel paese sono molto cambiati.

Lo stesso auspicio per la pace e l’entusiasmo del papa per la ripresa a Vienna dei negoziati sul Trattato di non proliferazione nucleare, salutato un anno fa sono stati sconfessati dalla risoluzione di Stati Uniti, Francia, Germania e Gran Bretagna, che hanno chiesto spiegazioni sulle tracce di uranio trovate in tre impianti di Teheran, esclusi formalmente dal programma atomico.

Papa Francesco ha più volte mostrato prudenza nelle questioni politiche dei singoli paesi. Ma davanti alla violazione dei diritti umani quando finisce la prudenza e inizia l’indifferenza? Persino papa Giovanni Paolo II, che per la prima volta ricevette in Vaticano un presidente iraniano, si offrì di mediare personalmente sul rilascio degli ostaggi statunitensi attraverso il suo nunzio in Iran, il vescovo Annibale Bugnini, parlando di «violazione dei principi del diritto internazionale».

Dalla prudenza all’indifferenza

È vero che la diplomazia della Santa sede differisce da quella degli altri stati. Eppure, intervistato da Limes nei mesi scorsi, il segretario di stato vaticano Pietro Parolin, così tracciava l’attività diplomatica Oltretevere: «si caratterizza per l’impegno a tutelare la dignità e i diritti fondamentali di ogni essere umano, a difendere i più deboli e gli ultimi sulla terra, a operare in favore della vita, in ogni sua fase, a promuovere la riconciliazione e la pace, attraverso il dialogo, la prevenzione e la soluzione dei conflitti».

Si dà il caso che pochi giorni fa l’Iran Human Rights Monitor abbia presentato il suo rapporto annuale: il paese si conferma come il più alto per tasso di esecuzioni, con un forte aumento in questo anno.

Nel 2021 sono stati registrati 366 decessi nelle carceri iraniane, quest’anno almeno 553: cifre che si sommano all’escalation di violenze a seguito delle proteste avviate dallo scorso settembre, quando l’assassinio di Masha Amini ha innescato le proteste della società civile e generato una repressione brutale delle manifestazioni, con uso di armi e altri strumenti deterrenti.

Eppure, incalzato sulla questione sul volo di ritorno dal Bahrein, papa Francesco glissava sull’argomento, parlando di Argentina e infibulazione: «I diritti sono fondamentali: ma come mai oggi nel mondo non possiamo fermare la tragedia della infibulazione alle ragazzine?».

Addio alle armi

L’occhio internazionale sulla repressione iraniana ha pure tirato in ballo il traffico d’armi, un argomento caro a papa Francesco. Un’inchiesta giornalistica di France24 ha rivelato la presenza di alcune cartucce dell’azienda franco-italiana Cheddite.

Per Amnesty International, la fabbrica con sede a Livorno avrebbe violato il regolamento 359 del Consiglio dell’Unione europea, che vieta l’esportazione di attrezzatura militare nel paese.

Intanto, il corpo del 23enne Majidreza Rahnavard, il volto coperto, pende da una gru nella gelida notte di Mashad. Prima di lui era toccato a un altro 23enne, Mohsen Shekari, lo stesso destino. Anche dai seminari religiosi di Qom, le voci degli ayatollah criticano le esecuzioni. Intanto dalla loggia di San Pietro ancora silenzio. Anche oggi, dove i morti parlano.

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