La storia della birra artigianale italiana viene fatta iniziare nel 1996. È allora che si fa strada nel nostro paese una produzione brassicola fino a quel momento inedita: indipendente da qualsiasi grande gruppo industriale, condotta su impianti microscopici, poco più che casalinghi e dedita a birre dai gusti complessi e variegati. Oltre vent’anni dopo, da quel primo piccolo nucleo è fiorito un movimento culturale ed economico che oggi conta oltre mille produttori, vale il 3,7 per cento del mercato totale della birra italiana e che ha portato la nostra nazione, nel 2016, a essere la prima al mondo a dotarsi di una legge che stabilisce il confine tra industria e artigianato in tre semplici paletti: indipendenza societaria ed economica da qualsiasi industria brassicola, produzione annua inferiore ai 200mila ettolitri, divieto di pastorizzazione e microfiltrazione.

Ora che il settore artigianale è maturo e solido e che ci si è definitivamente lasciati alle spalle l’idea che si possa trattare di un fatto modaiolo e passeggero, una delle sfide principali per il comparto è quella di uscire dalla propria zona di comfort. Una bolla che in questi anni l’ha certamente aiutato a crescere e, in parte, l’ha protetto, ma che oggi rappresenta anche uno dei principali ostacoli alla crescita.

Uscire da questa bolla è, infatti, necessario per accrescere la quota di mercato occupata dalla birra artigianale così che possa definitivamente diventare anche per il consumatore occasionale, una vera alternativa al prodotto massificato dell’industria.

La craft beer

È questo che è avvenuto, per esempio, negli Stati Uniti, la nazione che tra la metà degli anni Sessanta e la fine dei Settanta, per prima ha visto svilupparsi un movimento di birra alternativo e dove oggi la craft beer rappresenta il 13 per cento del mercato interno (dieci punti percentuali più del nostro), contribuisce all’economia statunitense con 62 miliardi di dollari e impiega 400mila addetti, dei quali 140mila direttamente nei birrifici e gli altri in pub, beer shop e nei vari ambiti collegati.

Capire la scena americana, anche se con le doverose differenze, prima tra tutte quella legata ai consumi che vedono gli statunitensi bere una media di 99 litri di birra pro capite all’anno e noi italiani fermi a quota 32, può essere molto utile per cogliere quale potrebbe essere il futuro della birra artigianale italiana, quali le opportunità e quali i rischi.

Tra poco arriveremo ai numeri, ma prima è necessario avere un quadro più preciso di cosa il termine craft indichi per la Brewer association, l’associazione di categoria dei birrifici artigianali statunitensi. Pur non trattandosi di una prescrizione di legge, è comunque la descrizione che più ci si avvicina.

Le condizioni

Il primo aspetto a essere preso in considerazione sono le dimensioni produttive. Per poter essere considerato craft un birrificio dev’essere piccolo. Un termine che per gli standard d’oltreoceano significa non superare i sei milioni di barili (poco più di 7 milioni di ettolitri) prodotti in un anno solare. E qui iniziano le differenze: la dimensione massima della descrizione americana è 35 volte più grande rispetto alla nostra.

«È un valore molto grande, è vero» sottolinea in un’intervista concessa a Domani Bart Watson, responsabile degli aspetti economici della Brewer association «ma si deve considerare che per il nostro mercato sei milioni di barili non sono poi così tanti se li si paragona agli 80-90 milioni che ogni anno l’industria mette in distribuzione».

Un ulteriore aspetto da tenere in considerazione è che i birrifici che arrivano a produrre queste quantità, e che sono catalogati come regional breweries, sono poco più del 2,5 per cento dei produttori attivi: il restante 97,5 produce meno di 15mila barili ed è catalogato come microbirrificio, brewpub o taproom.

Il secondo fattore è invece quello dell’indipendenza economica: per poter essere catalogato come craft un birrificio non deve essere posseduto per più del 25 percento da un altro produttore di una qualsivoglia bevanda alcolica. «L’indipendenza è ancora oggi un valore molto importante per i consumatori», afferma Watson, «da una nostra indagine interna per oltre il 60 percento si tratta ancora oggi di uno degli elementi che più indirizzano le scelte».

Anche per questo da qualche anno la Brewer association si è dotata di un logo che può essere messo sull’etichetta dai birrifici craft e che li identifica immediatamente come indipendenti. Una strategia talmente efficace da essere stata adottata anche dall’omologa associazione italiana Unionbirrai.

Ora che abbiamo più chiaro come vengono catalogati i birrifici statunitensi possiamo passare ai numeri. I birrifici craft negli Stati Uniti sono oggi 9.118 e da almeno dieci anni la loro crescita si è fatta più intensa (nel 2012 erano poco più di 2.500) e non si è arrestata nemmeno con la pandemia, che pur avendo fatto segnare un calo nella produzione e nelle vendite di circa il dieci per cento, in gran parte già recuperato con l’anno 2021, non ha portato a un numero così elevato di chiusure.

I grandi gruppi

Foto AP

Da segnalare, infine, il dato legato alle acquisizioni: a partire dal 2011 i grandi gruppi industriali hanno iniziato ad acquisire alcuni dei birrifici più importanti e noti della scena craft. Il primo è stato Goose Island di Chicago comprato dal gruppo AbInBev, mentre il più clamoroso per valori economici è stato l’acquisto del californiano Ballast Point che nel gennaio 2015 è passato nelle mani della società di distribuzione Constellation per un miliardo di dollari.

Queste operazioni, che nel periodo tra il 2015 e il 2017 sembravano destinate a crescere, si sono invece quasi del tutto interrotte già prima della pandemia. Questo calo non ha però limitato le conseguenze: i birrifici acquisiti oggi rappresentano da soli il quattro per cento del mercato e poiché nell’immaginario collettivo continuano a essere considerati craft rappresentano un problema per il settore e un motivo di confusione per il consumatore.

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