Mosca sta già compensando il calo del suo export di gas grazie alla Cina, che ha aumentato considerevolmente le importazioni dalla Russia.

La conferma arriva da Gazprom, che ha rivelato che nei primi quattro mesi del 2022 le esportazioni verso la Repubblica popolare cinese sono cresciute del 60 per cento rispetto allo stesso periodo del 2021.

Secondo la stessa nota pubblicata l’altro ieri dal colosso di stato russo, tra gennaio e aprile del 2022 le forniture ai paesi non membri della Comunità degli stati indipendenti sono diminuite del 26,9 per cento.

La Cina dunque finora avrebbe bilanciato solo parzialmente il boicottaggio di quei paesi che hanno scelto di opporsi anche con le sanzioni alla guerra scatenata da Putin contro l’Ucraina.

Nel 2021 la seconda economia del pianeta ha aumentato del 20 per cento le sue importazioni di gas, ma non è riuscita ad abbassare la quota riservata al carbone (56 per cento) nel suo mix energetico. Per raggiungere l’obiettivo del picco di emissioni nel 2030 e della neutralità carbonica nel 2060 Pechino punta soprattutto sul gas, sulle rinnovabili, sull’idroelettrico e, in misura minore, sul nucleare. Dunque nei prossimi decenni la Cina continuerà ad aumentare massicciamente le importazioni di gas dal paese confinante.

“Potere della Siberia”

Inaugurato nel 2019, il gasdotto “Potere della Siberia” raggiungerà la piena capacità (38 miliardi di metri cubi) nel 2025. Poi ci sono i nuovi contratti, quelli sottoscritti da Vladimir Putin e Xi Jinping a margine delle olimpiadi invernali di Pechino il 4 febbraio scorso, venti giorni prima che il presidente russo riportasse la guerra nel cuore dell’Europa.

Tra gli accordi per la fornitura di gas e petrolio russo (per un valore complessivo di oltre 117 miliardi di dollari) c’è quello con Gazprom per far arrivare ogni anno in Cina 10 miliardi di metri cubi di gas attraverso “Potere della Siberia 2”, che collegherà l’isola di Sachalin, nell’estremo oriente russo, alla provincia dello Heilongjiang, nel nord-est della Cina.b

La stessa Gazprom ha chiarito nel comunicato del 1° maggio che «considerando il contratto firmato a febbraio, le spedizioni di gas russo in Cina attraverso le rotte dell’Estremo oriente potrebbero raggiungere 48 miliardi di metri cubi all’anno» entro il 2026, quando sarà terminato il nuovo impianto.

Se tutti i paesi europei rifiutassero il gas russo (170 miliardi di metri cubici importati ogni anno, prima dell’invasione dell’Ucraina), la fame di energia della Cina rimpiazzerebbe per meno di un terzo quella del Vecchio continente. Ma ci sono due grossi “ma”. Anzitutto è altamente improbabile che tutti i governi europei possano/vogliano rinunciarvi, in mancanza di alternative altrettanto economiche.

In secondo luogo la Cina e la Russia con la loro partnership strategica “senza limiti” sottoscritta a Pechino hanno guardato al medio-lungo periodo, scommettendo su un’interdipendenza sempre più stretta, con il costante aumento di fornitura di materie prime da parte della Russia e l’altrettanto continuo incremento dell’export cinese di beni e servizi.

Non a caso Gazprom sta lavorando al progetto di un ennesimo gasdotto: il “Soyuz Vostok” che dovrebbe raggiungere la Cina attraverso la Mongolia, e che potrebbe aggiungere al fatturato di Mosca altri 50 miliardi di metri cubi di gas.

Le aziende “neutrali”

Se le risorse energetiche rappresentano per la seconda economia del pianeta una questione di sicurezza nazionale, il discorso è diverso per l’export cinese in Russia. I russi avrebbero utilizzato il sistema “AeroScope” della compagnia cinese Dji (che vende i suoi prodotti anche agli ucraini) per individuare e colpire i velivoli senza pilota avversari e i loro manovratori.

Così l’azienda di Shenzhen ha annunciato l’interruzione delle relazioni sia con Mosca sia con Kiev. E ora altre compagnie cinesi potrebbero imitare la prudenza del leader mondiale dei droni, per evitare di incappare nelle sanzioni statunitensi.

In particolare a Pechino stanno valutando il rischio di sanzioni “secondarie” ovvero quelle in cui potrebbero incorre le aziende che esportano prodotti con tecnologia Usa. Il caso Huawei – pesantemente danneggiata dal boicottaggio scatenatole contro da Trump – insegna: le compagnie cinesi saranno molto attente a non rimanere intrappolate nel campo minato dell’Ucraina.

Gli analisti economici cinesi ritengono che per evitare di essere punite molte compagnie potrebbero adottare la soluzione di Dji di ritirarsi sia dalla Russia sia dall’Ucraina, mostrandosi così “neutrali”.

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