Grand Forks è una tranquilla cittadina del Midwest americano di 58mila cittadini. Molti di essi sono impiegati nel settore manifatturiero o nei servizi ma questo luogo, situato nella cosiddetta corn belt, ha una forte identità agricola come il resto del North Dakota.

Non ci sarebbe molto da raccontare su Grand Forks normalmente, ma negli ultimi mesi la cittadina è diventata un caso nazionale che ha smosso gli apparati di sicurezza del paese e infiammato la retorica politica di Washington.

La società cinese

All’origine di questo trambusto c’è un’azienda, la Fufeng Usa. Si stratta di una controllata del Fufeng Group, una società privata cinese, che nella sua sede a Qingdao produce semilavorati industriali utilizzati nell’alimentare, nel farmaceutico e nella produzione di mangimi per l’allevamento.

Lo scorso anno, Fufeng Usa ha annunciato di voler investire 700 milioni di dollari a Grand Forks con l’obiettivo di realizzare uno stabilimento per processare il mais e ricavarne amminoacidi per l’arricchimento dei mangimi. Secondo le autorità locali si tratta del più grande affare nella storia della cittadina, che potrebbe creare centinaia di nuovi posti di lavoro.

Nell’ultimo decennio, le società cinesi hanno guardato al mercato agricolo statunitense con sempre maggior interesse. Se nel 2010 le società cinesi possedevano solo 13.720 acri di terreno, i dati ufficiali del Dipartimento dell’agricoltura riportano che nel 2020 le proprietà cinesi erano aumentate fino a 352.140 acri. E questa tendenza si è riscontrata in molti altri paesi.

Pechino cerca la sicurezza alimentare

La Cina nell’ultimo decennio ha cercato di espandere considerevolmente i propri investimenti all’estero nel settore alimentare. Tutto comincia con il miracolo economico che ha permesso al paese di sollevare dalla povertà centinaia di milioni di cinesi. Assieme all’aumento del reddito pro capite, anche la situazione alimentare è migliorata a partire dal 2000. Secondo quanto riportato dalla Fao, nel 2001 il 10 per cento della popolazione cinese risultava malnutrita mentre oggi il dato è sotto il 2,5 per cento, in linea coi numeri dei paesi sviluppati.

Sfamare la popolazione cinese però è un compito ben più complesso di quello che possa sembrare a prima vista. Per capirne il motivo basta conoscere la geografia. La Cina ha oggi circa il 18 per cento della popolazione mondiale e solo il 7-9 per cento di tutta la superficie arabile disponibile nel mondo. Per altro, questa superficie continua a restringersi mentre l’urbanizzazione e l’industrializzazione cambiano la faccia del paese. Il problema ha radici talmente profonde che nella cultura cinese per chiedere a qualcuno come stia gli si chiede nǐ chīfànlema, ovvero «hai mangiato?».

A questo squilibrio si sono aggiunti in anni recenti nuove preoccupazioni. L’inquinamento del suolo e delle falde acquifere ha reso impraticabile l’agricoltura e l’allevamento in certe zone della Cina, ma anche i cambiamenti climatici stanno colpendo duramente il paese. La siccità e le piogge torrenziali degli ultimi anni hanno provocato seri danni per coltivatori e allevatori.

Nel 2008 il paese è diventato un importatore netto di prodotti alimentari, una condizione nella quale si trova tutt’oggi. Questa dipendenza della Cina dall’estero impensierisce molto la sua dirigenza, che da quando Xi Jinping è salito al potere ha fatto della sicurezza (anche alimentare) il proprio mantra politico.

Lotta alle vulnerabilità e ricerca dell’autosufficienza alimentare sono quindi due obiettivi che coesistono nelle politiche cinese degli ultimi anni. Mentre il governo sta cercando di ridare slancio all’economia rurale delle campagne cinesi, numerose società cinesi si sono avventurate all’estero in cerca di risorse utili per sostenere i bisogni alimentari della Cina. Ed è qui che le storie di Qingdao e Grand Forks si intrecciano.

I sospetti del Midwest americano

Lo stabilimento che Fufeng vuole aprire in North Dakota ha una sua ratio economica. La Cina importa grandi quantità di prodotti alimentari dagli Stati Uniti e sono numerose le società cinesi che hanno deciso in anni recenti di investire in quel mercato per cercare di trarne un profitto.

Lo stabilimento di Grand Forks in particolare mira a processare 25 milioni di staia di mais sui 400 milioni prodotti all’anno lo stato, in un’area dove a detta di Frayne Olson, economista della locale università, non esiste una concorrenza agguerrita in questo settore e che gode di buoni collegamenti infrastrutturali.

Eppure, sebbene si preveda che l’investimento faccia salire i prezzi del mais nella zona, una parte della comunità di Grand Forks ha dimostrato grande preoccupazione e le sedute del consiglio cittadino si sono spesso infiammate. Secondo molti dei residenti dietro alla società si nasconde il Partito comunista cinese, che più che allo stabilimento sarebbe interessato alla posizione strategica della cittadina. A meno di 20 km da Grand Forks infatti si trova un’importante base militare delle forze armate statunitensi e non sono in pochi a credere che il reale scopo di Fufeng Usa sia quello di permettere operazioni di spionaggio cinese sul suolo statunitense. Accuse che la società respinge.

Al momento un gruppo di residenti di Grand Forks sta conducendo una battaglia legale per poter indire un referendum cittadino sul progetto, mentre in parallelo a Washington la autorità stanno valutando se l’investimento può avere un impatto sulla sicurezza nazionale. A prescindere dai risultati di questi due procedimenti, però, il progetto è ormai diventato uno spaventapasseri dei falchi repubblicani anti-cinesi che lo sbandierano mentre chiedono maggiori controlli e restrizioni per gli investitori cinesi nelle economie rurali degli Stati Uniti.

Le parole più incisive sulla vicenda però le hanno pronunciate i due senatori del North Dakota, che hanno invitato le autorità locali a «cercare di trovare qualche altra azienda con cui lavorare su questo progetto di agribusiness». E pensare che, appena un decennio fa, nella stessa Grand Forks i cinesi erano stati salutati con gioia quando una azienda statale aveva salvato un’importante società locale dal fallimento. Altri tempi.

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