Gli armatori sono scesi a terra. Questa frase, ripetuta come un mantra dai lavoratori portuali e dalle aziende che gestiscono i terminal degli scali marittimi, descrive con precisione e un con una certa forza visiva un cambiamento nel mondo dello shipping che sta coinvolgendo sempre più settori, fino a coinvolgere a quello del trasporto aereo.

Dire che gli armatori sono sbarcati sulla terraferma significa parlare del processo di accentramento della catena logistica nelle mani di quelle compagnie di navigazione che fino a poco fa che si occupavano unicamente di trasporto container e che nel corso del tempo sono riuscite ad estendere in maniera crescente le proprie competenze. La stessa azienda, quindi, si occupa adesso del trasporto delle merci via mare, ma anche della gestione del terminal da cui questi enormi cargo partono e di quelli in cui attraccano, così come del trasporto dei container su strada o rotaie. L’obiettivo è riempire tutte le caselle del percorso fatto dalle merci, coprendo così l’intera catena e imponendo le regole di un gioco in cui chi è più piccolo rischia di soccombere. Soprattutto dopo le crisi derivanti dalla pandemia prima e della guerra in Ucraina poi, due eventi che hanno avuto ripercussioni a livello internazionale e che hanno accelerato la trasformazione del mondo della logistica.

Il controllo dei terminal

Questo processo di accentramento è stato possibile grazie alla presa di controllo graduale di quelle aziende che hanno in concessione i terminal dei porti, attraverso un sistema di acquisizioni e di scatole cinesi che nella maggior parte dei casi riconduce agli stessi nomi. Grazie a questa espansione graduale ma costante, le compagnie più grandi del trasporto merci per mare sono riuscite a mettere un piede - se non tutti e due - sulla terraferma, occupandosi così anche dei terminal portuali. Questo processo ha avuto degli effetti negativi sulle aziende che si occupano della gestione degli scali e che si sono trovate a fare i conti con compagnie molto più forti e competitive. A pagare il prezzo di questa concorrenza spietata però sono prima di tutto i lavoratori del porto, sui quali ricadono le conseguenze di questa gara al ribasso per aggiudicarsi la gestione dei terminal. Le conseguenze più evidenti sono la riduzione degli stipendi a fronte di un aumento del carico di lavoro e la sempre minore attenzione sul fronte sicurezza, due aspetti complementari che si sono tradotti nell’incremento degli incidenti e nella precarizzazione dei lavoratori del porto.

Il nostro paese da questo punto di vista non fa eccezione. Anche in Italia i grandi armatori sono passati dal gestire il solo trasporto via mare di container al controllare le più importanti banchine italiane, con l’obiettivo ultimo di gestire anche il traffico delle merci su camion, treni e persino aerei. Un caso emblematico è quello della Msc, compagnia con sede in Svizzera ma di proprietà della famiglia italiana Aponte che controlla il 40 percento dei porti italiani e il cui business è in continua espansione. Solo negli ultimi mesi il colosso, noto soprattutto per le crociere, ha acquisito la società terminalista Trieste Marine Terminal – che gestisce a sua volta uno dei terminal del porto di Trieste – e il Terminal Darsena Toscana di Livorno, dopo aver già preso il controllo per il 50 percento del Terminal Lorenzini, sempre a Livorno. Le ultime mosse di Msc sono perfette per comprendere quanto sta accadendo nei porti, ma anche all’esterno.

Oltre i porti

L’acquisizione dei terminal portuali infatti può essere visto come un processo di espansione in linea con il business principale di queste grandi aziende, ma l’interesse dei grandi armatori non si limita agli scali marittimi. Basta guardare ancora una volta al portafoglio di Msc. L’azienda possiede anche una compagnia di treni merci, la Medway, che punta a espandersi in Austria e in Germania, ma anche una compagnia di trasporto su gomme, la MedTruck, e per un certo periodo è stata interessata anche all’acquisto di Ita Airways. La Msc non è certo l’unico colosso dello shipping ad essere interessato al traffico aereo. La francese Cma è entrata in Air France-Klm, mentre la danese Maersk ha comprato due compagnie aeree cargo, la Pilot e la Senator.

Ad aver reso possibile l’espansione dei grandi colossi del mare sono anche una serie di agevolazioni fiscali garantite dalla Tonnage Tax europea, attiva anche in Italia, e che permette di pagare le tasse in base al peso della merce trasportata anziché sulle entrate. La Tonnage Tax è stata pensata per incentivare le compagnie a navigare sotto bandiera europea, ma anche per poter reggere la concorrenza delle altre aziende extra-Ue. Le agevolazioni fiscali però possono essere estese anche alle altre attività gestite dagli armatori ed è qui che sorge il problema. Come spiega bene un report dell’International Transport Forum dell’Ocse, la pressione fiscale di una società terminalista controllata da una compagnia di navigazione è del 14 per cento, contro il 21 per cento di un terminalista che non fa capo ai grandi armatori. Tutto ciò ha permesso ai grandi colossi di pagare meno tasse, di aumentare le entrate, di essere più competitivi a discapito soprattutto di chi si occupa della sola gestione dei terminal e di acquistare via via pezzi del grande puzzle della logistica. Fino ad arrivare alle compagnie aeree, facendo così un salto dalle cosiddette autostrade del mare a quelle (anche) del cielo.

La Tonnage tax però è tornata di recente al centro delle polemiche e diverse voci critiche hanno chiamato in causa anche il governo, che potrebbe intervenire per limitare le agevolazioni fiscali degli armatori. La partita però si gioca soprattutto a livello europeo. Se la norma fosse modificato solo dall’Italia si creerebbero nuove storture e diversi livelli di competitività tra gli Stati membri, con le grandi compagnie pronte a trasferirsi altrove per continuare a beneficiare delle solito agevolazioni fiscali. La soluzione al problema, dunque, deve essere ricercato a livello europeo, oltre che nazionale. 

Gli oligopoli

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I grandi armatori però non agiscono sempre da soli. I più importanti sono parte di alleanze internazionali riunitesi in tre grandi conglomerati: Msc e Maersk formano insieme la 2M; la francese CmaCgm, la cinese Cosco e la taiwanese Evergeen sono parte della Ocean Alliance; la tedesca Hapag-Lloyd, la sudcoreana Hyundai Merchant Marine, la taiwanese Yang Ming e la giapponese One-Ocean Network Express sono infine riunite in THE Alliance. Tutte insieme coprono circa l’85 percento del traffico container mondiale e il 100 percento di quello diretto verso l’Europa.

L’alleanza tra le più grandi compagnie di armatori ha permesso la creazione di veri e propri oligopoli in grado non solo di accrescere le proprie quote di mercato, ma anche di dettare i prezzi dei servizi offerti. Lo si è visto bene durante la pandemia, trasformatasi in un’occasione di ulteriore guadagno per le grandi compagnie del mare. Come riportato da ReCommon, queste ultime hanno sfruttato la posizione di oligopolio de facto e quella di leader nella tratta che collega Europa e Cina per rafforzarsi attraverso il cosiddetto blank sailing. Le aziende hanno drasticamente ridotto le navi su questa specifica tratta facendo così scendere anche il numero di posti container a livello mondiale. Questa mossa ha comportato un incremento dei prezzi dei servizi che hanno registrato a maggio 2020 un picco del +682 per cento, con aumenti medi del 400 per cento.

Per chi già controllava una grossa fetta del mercato della logistica, quindi, la pandemia e i disagi che hanno interessato la catena dell’approvvigionamento si sono trasformati nell’ennesima occasione per fare profitto e per rafforzare la propria posizione predominante. A discapito di chi, come sempre, ha meno risorse, meno agevolazioni e finisce con il soccombere a oligopoli che continuano a crescere incontrastati.

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