Dallo scorso agosto, a partire dal ritiro dell’occidente da Kabul per giungere all’offensiva russa di questi giorni in Ucraina, abbiamo assistito con sgomento sia alla fine della Global war on terrorism (Gwot) sia al ritorno – su vasta scala e senza precedenti – della guerra alle porte dell’Europa.

In soli sette mesi, il paradigma della sicurezza dall’Asia centrale al cuore dell’Europa è cambiato con una velocità e intensità tali da rendere obsolete certezze, ambizioni e prospettive. Se Kabul e Kiev possono rappresentare, con le loro estremità, le variegate sfaccettature della violenza organizzata, gli scenari di crisi che geograficamente si collocano tra le due capitali ci presentano un mondo che mai come in questa fase appare così insicuro.

L’Ue e la Nato

Dal Golfo sino al medio oriente, dal Mediterraneo orientale al nord Africa e nel Sahel si sono andate a consolidare una moltitudine di forme di lotta – convenzionale e non convenzionale – che hanno progressivamente eroso sovranità statuali e certezze multilaterali consolidate, e con esse il campo dell’ordine liberale nato dalla fine della Guerra fredda.

La concomitanza – non soltanto simbolica – del ventennale dell’11 settembre con il ritiro americano dall’Afghanistan, e della fine della guerra più lunga sostenuta da Washington, ha accresciuto nei 27 stati membri dalla Ue la consapevolezza della necessità di dotarsi di capacità militari indipendenti, in modo da consentire all’Unione medesima di essere nel contempo complementare alla Nato e autonoma da essa, laddove reso necessario dal proprio livello di ambizione.

Tale convinzione si sta peraltro rafforzando, in ragione del deterioramento dei rapporti con la Russia e della diffusa instabilità nell’area del Mediterraneo allargato. Tendenza, quest’ultima, aggravata dal parziale disimpegno statunitense in quel quadrante, che sta determinando l’assenza di un ordine internazionale in cui superpotenze, attori regionali e attori non statuali si trovano a operare in maniera sempre più assertiva.

Il Mediterraneo

Prima ancora del dispiegamento della flotta russa nel Mar Nero e dello schieramento dei T-72 in Ucraina, le prove generali del disordine internazionale sono avvenute proprio nel Mediterraneo, attraverso il comportamento sempre più muscolare di alcuni stati. Nello specifico, l’instabilità determinata dalle cosiddette primavere arabe del 2011, dal conflitto siriano, dal caos politico ed economico libanese, dalle tensioni tra potenze regionali nel Mediterraneo orientale e dalla mancata riunificazione formale e sostanziale della Libia ha trasformato la regione in un’arena competitiva tra attori globali e potentati locali.

Su un livello differente, ma tutt’altro che circoscrivibile al ruolo di potenza in declino, si colloca l’azione della Russia che, operando attraverso forme differenti di guerra convenzionale e ibrida – nonché utilizzando compagnie ufficialmente private quali la Wagner – è riuscita dal 2014 a oggi ad acquisire determinanti vantaggi territoriali, politici ed economici, difficilmente prevedibili all’inizio degli anni Duemila, e ciò in differenti contesti di crisi. Parimenti, il congelamento dei conflitti in Siria, Libia e Nagorno-Karabakh insieme al ruolo tutt’altro che lineare dei rapporti con la Turchia – partner e rivale nel contempo – pur non avendo determinato una soluzione duratura, ha di fatto limitato l’azione della comunità internazionale.

Dimenticare la guerra

Sullo stesso piano si colloca peraltro la Cina nei quadranti dell’Asia orientale, con uno sviluppo del suo strumento militare in apparenza di tutto rispetto e sempre più orientato a una dimensione globale, per non parlare dell’Iran o della Corea del Nord, anch’essi particolarmente assertivi nei confronti dei rispettivi scacchieri.

Il filo conduttore che unisce l’agire sulla scena internazionale di tutti questi attori, pur nella diversità delle interpretazioni e delle rappresentazioni, è l’imposizione con la forza della propria volontà all’avversario. Forza che si manifesta attraverso l’utilizzo della violenza organizzata a livello statuale e non statuale, cioè della guerra, o della minaccia di farla.

Nondimeno, le opinioni pubbliche occidentali hanno relegato la guerra nel dimenticatoio della storia dopo il crollo del Muro – certamente per ottime ragioni – ancorché la comunità internazionale abbia continuato a utilizzarla in modo selettivo e limitato, talvolta con finalità legittime, altre volte meno. Gli altri, invece, la guerra non se la sono dimenticata per niente, e continuano a praticarla senza remore, o perché vi si sentono costretti o perché ci sono abituati.

Trent’anni dopo la fine della Guerra fredda, dunque, non possiamo più permetterci di ignorare un fenomeno che non solo non è morto, ma che appare più vivo e vegeto che mai. E che bussa ormai alle porte di casa nostra. Si tratta dunque di tornare a conoscere, per comprendere le mosse dell’altro, per potersi di conseguenza difendere.

Con questa intenzione un gruppo di studiosi italiani ha ripreso in mano il discorso della guerra e, partendo da un’analisi scientifica delle manifestazioni del fenomeno dal Novecento a oggi, ne ha tratteggiato sia i fondamenti teorici sia le mutazioni più recenti, nonché l’impatto sugli scenari geopolitici evidenziati in apertura. Non a caso il lavoro, in libreria dalla fine del mese, si intitola Da Clausewitz a Putin ed è edito da Ledizioni, perché queste sono le due facce della medaglia.

Se l’interpretazione moderna della guerra come fenomeno sociale oltre che militare inizia con il teorico prussiano, vi è infatti da chiedersi se ciò a cui assistiamo oggi – l’agire di Putin, per l’appunto – rappresenti una radicale trasformazione di tutto ciò che abbiamo sempre conosciuto, o solo una semplice evoluzione consentita da mezzi e tecnologie più sofisticate che in passato.

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