Vale la pena abbracciare la democrazia quando genera risultati pericolosi? Perché i semplici risultati democratici e le elezioni dovrebbero avere la precedenza sulle altre cose che ci stanno a cuore, come il liberalismo, i diritti umani, la giustizia sociale o l’uguaglianza di genere? Prima che queste domande cominciassero a turbare l’Europa occidentale e gli Stati Uniti, sono state più che evidenti nel medio oriente. In questo senso il medio oriente è stato in anticipo sui tempi, nonostante tutta la sua presunta arretratezza.

In tutta la regione, e per decenni, i partiti islamisti hanno avuto le maggiori probabilità di vincere le elezioni. Per gli osservatori e i politici occidentali questo rappresenta un dilemma: nella teoria vogliono la democrazia, nella pratica però non necessariamente ne vogliono i risultati.

Una via d’uscita da questo dilemma è quello che chiamo “minimalismo democratico”, una posizione che privilegia la democrazia – con un’enfasi sulle preferenze delle maggioranze attraverso elezioni regolari e la rotazione del potere – sul liberalismo quando le due cose sono in tensione. Anche se non possono essere del tutto separati, i due concetti possono essere distinti in modi analiticamente utili. È impossibile elaborare una definizione onnicomprensiva per tutto ciò che il liberalismo è stato, è e sarà. La maggior parte delle definizioni, tuttavia, presenta temi ricorrenti.

Al livello più elementare, il liberalismo è il progetto ininterrotto di conquistare diritti derivanti dal riconoscimento della dignità intrinseca di ogni vita umana. Poiché questi diritti sono, per definizione, specifici, devono essere specificati. John Rawls, verosimilmente il filosofo americano più influente del Ventesimo secolo, descrive il liberalismo come «una specificazione di alcuni diritti, libertà e opportunità fondamentali». Per definizione, questi diritti possono essere specificati solo in relazione agli individui.

Come osserva Francis Fukuyama: «Il principio fondamentale sancito dal liberalismo è quello della tolleranza: non occorre essere d’accordo con i propri concittadini sulle cose più importanti, ma soltanto sul fatto che ogni individuo può arrivare a decidere quali siano queste cose importanti senza interferenze da parte dell’altro o dello stato». Il liberalismo offre una risposta particolare alla questione della diversità umana. Se le persone non riescono ad accordarsi sullo scopo della vita stessa, e per il rischio di combattere e morire per tali scopi, allora la politica dovrebbe svuotarsi il più possibile dei fini ultimi e dei progetti utopici.

Se l’unità di riferimento è l’individuo, di conseguenza assume una particolare importanza la libertà di coscienza, di credo e di espressione. Il diritto di perseguire la felicità (o la realizzazione) come si ritiene opportuno è sacrosanto e l’unico vero principio di delimitazione è il danno agli altri individui, poiché ciò violerebbe la loro ricerca di felicità e realizzazione.

Religione nella vita pubblica

Liberalismo non è sinonimo di secolarismo, ma implica che la religione abbia un ruolo limitato nella vita pubblica, anche se i liberali spesso sono in disaccordo sul grado di questa limitazione. Secondo Rawls, i credenti non devono rinunciare alle proprie «dottrine comprensive»; ma devono giustificare le proprie preferenze politiche ricorrendo a motivazioni che possono essere accettate da cittadini che non condividono le convinzioni in questione. Questo è ciò che Rawls ha chiamato «ragione pubblica». Se c’è pluralismo, e di solito c’è, deve esserci un «pluralismo ragionevole». Tuttavia, chi decide cos’è ragionevole in una società pluralista animata da divergenze di fondo?

La relativa enfasi sulla libertà individuale in contrapposizione alle norme tradizionali e ai doveri collettivi è pertanto una tensione centrale nelle società liberali. I critici del liberalismo sostengono che la preoccupazione per l’individuo esiste solo a spese della collettività. La collettività non ha “diritti” legali e applicabili, o quantomeno nessuno nessuno che possa sostituire quello di un individuo. Ed è qui che diventa palpabile la tensione tra liberalismo e democrazia. Hanno a cuore fini diversi e talvolta questi fini entreranno in conflitto.

C’è stato un tempo in cui sia gli americani sia gli europei potevano compiacersi del fatto che liberalismo e democrazia andassero mano nella mano. Nell’esperienza occidentale è di solito andata così, tanto che nell’uso comune “democrazia” è diventata la formula abbreviata per dire “democrazia liberale”. Uno sguardo superficiale alle pagine di opinione e a vari lavori accademici è sufficiente per illustrare quanto si siano fuse le due nozioni. Per millenni, tuttavia, sono state viste come «nozioni rivali». O, come disse John Adams, «non è mai esistita una democrazia che non si suicidasse». Le democrazie «hanno vite brevi quanto violente sono state nella loro morte»: così si espresse James Madison, il padre della Costituzione americana.

Può sembrare strano oggi, ma i Padri fondatori di un paese che è stato associato alla democrazia la temevano, soffrivano di una sorta di “agorafobia politica”, la paura dell’uomo della strada. Credevano invece nella regola del migliore: i benestanti e i saggi, i più istruiti, i più competenti e coloro che possedevano il dono della virtù. Come ragionava Madison nei Federalist Papers: «Lo scopo di ogni costituzione politica è, o dovrebbe essere, innanzitutto la difesa dei governanti, di chi possiede la saggezza per discernere e la più alta virtù per perseguire il bene comune della società». I Padri fondatori avevano capito che il liberalismo, che mirava alla limitazione della volontà degli elettori, non era la stessa cosa del «governo del demos, il corpo della cittadinanza: il diritto di tutti di decidere quali sono le materie di interesse generale».

Ovviamente la comunità alle origini dell’esperimento americano era già considerevolmente ristretta. I neri e le donne non potevano votare. Lo stesso valeva per la maggioranza degli uomini bianchi, per via dei requisiti di proprietà e delle tasse sulle persone. La democrazia moderna, anche nella sua forma minimalista, richiede il diritto di voto per tutti i cittadini. Secondo questo standard, gli Stati Uniti non erano una democrazia e non lo sarebbero stati per molto tempo. Nel suo libro Il futuro della libertà, pubblicato nel 2003, Fareed Zakaria ha reso popolare l’idea che liberalismo e democrazia non coincidessero necessariamente. Un crescente numero di democrazie stavano diventando illiberali: le maggioranze negavano i diritti delle minoranze e davano potere a funzionari che comprimevano le libertà civili. Per molti l’argomentazione di Zakaria poteva creare confusione, e parte della confusione aveva a che fare con l’ordine sequenziale. Nella storia dell’America e dell’Europa il liberalismo ha preceduto la democrazia, permettendo a quest’ultima di prosperare. Come hanno osservato gli scienziati politici Richard Rose e Doh Chull Shin: «I paesi della prima ondata (della democrazia), come la Gran Bretagna e la Svezia, sono inizialmente diventati stati moderni, instaurando lo stato di diritto, le istituzioni della società civile e la responsabilità orizzontale dei parlamenti aristocratici». Solo allora la democratizzazione – sotto forma di elezioni significative per il potere esecutivo e di graduale espansione del diritto di voto – ha davvero preso piede.

Se liberalismo e democrazia fossero stati legati insieme in patria, sarebbe stato giusto pensare che sarebbero andati insieme all’estero. Se i valori liberali derivassero dalla dignità della persona umana, vorrebbe dire che la loro applicabilità sarebbe universale. Questo universalismo – che trascende la cultura, la religione, la geografia – ha reso l’idea liberale sia ispiratrice, sia in linea con la concezione di sé dell’America. L’unico altro stato-nazione “universalista” è la Francia, ma la Francia, per i limiti di luogo in cui si trova e di potere, ha generalmente perseguito una politica estera più tradizionale, basata su interessi specifici. All’inizio del Ventesimo secolo gli Stati Uniti si sono accorti di non avere tali limitazioni. Come disse una volta Teddy Roosevelt: «La nostra suprema utilità per l’umanità risiede nella combinazione di potere e di uno scopo elevato».

Una causa elevata

Per gli americani fu semplice perdere di vista come questa fosse una cosa inusuale nel mezzo della storia umana. Non appena un paese, ma una causa: e ora quella causa poteva essere condivisa all’estero, mentre la potenza e la capacità americane crescevano all’ombra dei poteri imperiali in declino. Per la sua potenza, che sarebbe presto stata ineguagliata, una nazione rinfrancata aveva il lusso di fare ciò che gli altri paesi non potevano. Di certo non siamo sempre stati all’altezza dei nostri nuovi ideali proclamati, ma abbiamo fatto finta che fosse una specie di privilegio.

Fin dall’inizio, questi valori che segnalano uno scopo più elevato sono stati associati più al liberalismo e alla libertà dell’illuminismo che alla democrazia popolare. Abbiamo già visto cosa pensavano i fondatori sui pericoli della politica di massa. Ma la relativa enfasi sulla libertà individuale è continuata. Nel Ventesimo secolo, Franklin D. Roosevelt sottolineaò le «quattro libertà» mentre John F. Kennedy dichiarò che «il “potere magico” dalla nostra parte è il desiderio di ogni persona di essere libera». La democrazia faceva parte dell’equazione, certo, ma non era la spinta primaria. E senza la mitigazione del liberalismo la democrazia poteva essere un problema, che era meglio evitare nelle società e nelle culture straniere non ancora sviluppate. In quei luoghi bisognava inculcare dapprima i valori liberali e il buon carattere morale, un tema che avrebbe avuto un posto di rilievo nell’impresa coloniale americana nelle Filippine. Il presidente Woodrow Wilson, nonostante (o forse a causa di) la sua enfasi sulla libertà, condivideva timori simili a proposito delle masse filippine. «Solo un lungo apprendistato di obbedienza può assicurare loro il prezioso possesso», fu come si espresse.

Questo non significa che ci sia qualcosa di sbagliato nei valori liberali. C’è anzi molto di buono. Per essere sincero rispetto ai miei pregiudizi, ammetto che io stesso sono un liberale, anche se sono il tipo di liberale che è critico verso ciò che il liberalismo è diventato. I miei critici a volte mi chiedono se sarei a mio agio a vivere sotto un governo islamista democraticamente eletto. La mia risposta è un semplice e convinto “no”. Tuttavia, sono anche consapevole che il mio liberalismo è contingente – è l’esito degli accidenti del luogo in cui sono nato e di altre inusuali circostanze storiche. Sono un prodotto del mio contesto, esattamente come ciascuno è un prodotto del proprio contesto. Se i miei genitori non avessero deciso di emigrare negli Stati Uniti, e io avessi trascorso le mie esperienze formative politiche e culturali in un ambiente religioso conservatore, sarei stato invece modellato da quelle esperienze.

Consapevole di quanto le persone sono malleabili rispetto alla forza e alla viscosità della cultura, cerco nella mia argomentazione di sospendere i miei bias verso un liberalismo che può essere buono e giusto, ma non è necessariamente universale. Nessuno è una tela vuota, ovviamente, e anche la mia decisione di preservare la mia analisi dalle mie inclinazioni ideologiche è essa stessa una specie di scelta ideologica. C’è la questione di cosa dovrebbe essere - che è essenzialmente soggettiva - e anche la questione di ciò che può essere, che forse è a sua volta soggettiva, ma un po’ meno.

In questa seconda dimensione, la diffusione del liberalismo in medio oriente è irrealistica, per dirla in modo chiaro. Anche se tutto è possibile, non tutto è plausibile. E il liberalismo, per quanto possa essere ancora attraente per molti americani, incontrerà resistenza in paesi conservatori a maggioranza musulmana, cosa che abbiamo già visto per decenni.

Lo scontro con l’islam

Il liberalismo, come sistema di valori e come serie di premesse sulla supremazia della ragione e del progresso sulla rivelazione, riguarda questioni fondamentali sulla vita buona e lo scopo dello stato. In questo senso, non può non essere in contrasto con l’islam, una religione che, nelle sue varie declinazioni principali, ha protetto gelosamente la sua giurisidizione su queste questioni ultime. Questo non è l’islam come “dovrebbe” essere, ma l’islam così com’è stato in modo pressoché ininterrotto per circa quattordici secoli. Come nucleo di premesse ideologiche, e non come sistema di governo, il liberalismo richiede la presenza di liberali, e non ce ne sono molti in medio oriente. Ce ne sarebbero anche, ma in una fase in cui il fascino delle idee del liberalismo classico sta svanendo nei luoghi in cui sono cresciute, è difficile immaginare uno scenario in cui la maggioranza degli egiziani, dei giordani o degli algerini decide di diventare liberale, dopo non esserlo stato finora. È importante valutare l’attrattiva, o la mancanza di attrattiva, delle idee liberali.

Se la democrazia è un pacchetto che include al suo interno premesse di vario tipo sulla natura del progresso, della natura umana e sui fini ultimi dell’esistenza, allora sarà meno probabile che venga accettata in società dove queste premesse non sono condivise. È meglio e più consono concentrarsi sui mezzi, non sui fini. I fini della politica ruotano esattamente attorno a questioni esistenziali che non possono trovare risposta dagli outsider, per quanto possano essere animati da buone intenzioni. I liberali potranno dire che la loro è una soluzione di compromesso, perché offre uno spazio pubblico neutrale in cui gli individui possono esprimere liberamente le proprie convinzioni e preferenze religiose. Ma l’idea che il liberalismo sia “neutrale” può essere accettata soltanto all’interno di una cornice liberale.

Maggioranze

Una critica a questo approccio minimalista è che corre il rischio di scivolare nella tirannia della maggioranza. Tuttavia, anche nella più minimalista delle democrazie, se vuole rimanere democratica, l’opposizione deve avere uno spazio di azione sufficiente per avere una reale possibilità di sconfiggere gli eletti uscenti. I cittadini devono sempre avere la possibilità di cambiare idea nelle elezioni successive, e i partiti d’opposizione devono sempre avere la possibilità di opporsi e organizzarsi, altrimenti non sarà certo che gli esiti elettorali riflettono le preferenze degli elettori. Il diritto, e la possibilità, di opporsi ai partiti di governo richiede una protezione basilare della libertà di parola, di espressione e di riunirsi in assemblea. Senza queste protezioni, la società civile e le opposizioni non sarebbero in grado di segnalare gli abusi del governo e di convincere gli elettori a fare scelte diverse alla tornata successiva. Una cornice costituzionale che mette dei limiti alla volontà delle maggioranze sarebbe comunque in essere. Quella cornice potrebbe essere più permissiva rispetto alla media, concedendo più spazio all’espressione problematica, o anche pericolosa, delle inclinazioni della maggioranza, ma sarebbe comunque una cornice. Quando le democrazie producono esiti illiberali vale la pena chiedersi che tipo di illiberalismo viene prodotto.

L’illiberalismo politico – limitare la capacità dei manifestanti di radunarsi in luoghi pubblico o criminalizzare le espressioni contro i capi di governo o i vertici militari – è diverso dall’illiberalismo sociale, culturale o religioso, che riguarda invece l’espressione di una particolare concezione del bene. Il primo tipo è generalmente orientato ai mezzi, mentre il secondo ai fini. Per esempio, le leggi che limitano il diritto di consumare sostanze alcoliche, abortire oppure insultare i profeti o i testi sacri riguardano i fini, mentre una legge che proibisce i raduni con oltre 100 persone riguarda i mezzi.

Presumibilmente le persone manifestano in pubblico perché vogliono cambiare le politiche, ma il fatto in sé di manifestare non ha un contenuto ideologico. I manifestanti possono essere socialisti, liberali, di sinistra o islamisti, ciascuno con le proprie visioni su come la società dovrebbe essere organizzata. Questo agnosticismo ideologico è il cuore della mia proposta. La democrazia, intesa in senso minimalista, sarebbe disponibile e accessibile a tutti, dal momento che sarebbe priva di contenuto ideologico sui fini sostanziali della politica. Sarebbe innanzitutto preoccupata di regolare il conflitto e distribuire il potere fra fazioni ideologiche competitive. In questo senso, le elezioni democratiche sono la prosecuzione della guerra con altri mezzi. In politica ci sono amici e nemici. Il problema è come affrontare questo stato naturale di inimicizia e resistere alla tentazione di risolverlo con la violenza. Questo è ciò che anche democrazie imperfette e fragili rendono possibile.

La democrazia permette il trasferimento pacifico dei poteri anche (e in modo particolare) in contesti ideologicamente polarizzati. Come insieme di meccanismi per la regolamentazione dei conflitti, contribuisce nel lungo termine alla stabilità, anche se questo può non essere vero nel breve periodo – un comprmesso difficile eppure necessario. La democrazia offre anche prevedibilità, dato che gli sconfitti alle elezioni hanno la possibilità di competere in un’altra occasione, ammesso che siano disposti a condurre la sfida in modo pacifico. Questa riconcettualizzazione della democrazia offre un messaggio importante non soltanto per il medio oriente – le regione che, tragicamente, soffre di più per la mancanza di democrazia – ma anche per le democrazie straniere che stanno affrontando la crescita dei partiti di estrema destra. Se liberalismo e democrazia stanno effettivamente divorziando, dobbiamo fare di tutto per salvare quest’ultima, senza dare alla “democrazia” un peso che non può più reggere.


Il testo in queste pagine è l’adattamento, a cura dell’autore, di una parte del primo capitolo di “The Problem of Democracy”, pubblicato da Oxford University Press lo scorso autunno negli Stati Uniti e alcuni giorni fa in Europa. Fa parte del nuovo numero di Scenari. Traduzione a cura di Monica Fava.

 

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