Negli anni Sessanta lo psicologo statunitense Charles Egerton Osgood, in un periodo di grande corsa agli armamenti che le due superpotenze americana e sovietica stavano conducendo, propose nel suo An alternative to war and surrender una teoria di graduale depotenziamento delle tensioni che andava sotto l’acronimo Grit (Graduated reciprocation in tension reduction).

L’idea, applicabile in ogni caso di conflitto, partiva dall’assunto che nessuna delle due parti intendesse realmente attaccare e fare male all’altra, il problema era che entrambe percepivano l’opposto. Alla base dello sguardo perennemente in cagnesco tra le due, quindi, secondo Osgood, c’era un falso problema e politiche conciliatorie sarebbero state per lui utili a ridurre sospetti e tensioni. Secondo lo storico Alan R. Collins queste strategie Grit, tuttora utilizzate in ambiti di conflict resolution, avrebbero sostenuto, un trentennio più tardi, la scelta di Gorbachev di compiere lo storico passo che mise fine alla guerra fredda.

Altri sostengono, invece, che a far desistere Mosca, era stato il clamoroso aumento di arsenali militari voluto da Reagan negli anni precedenti. Volendo analizzare i fatti, però, tre anni dopo il crollo della cortina di ferro, proprio dall’allora presidente americano George H.W. Bush giunse un chiaro segnale di distensione: «Possiamo raccogliere – dichiarò nel 1992 – un autentico dividendo della pace quest’anno e poi l’anno successivo, sotto forma di una riduzione permanente dei bilanci della difesa».

Detto, fatto, gli Stati Uniti passarono dal 6 per cento del Pil per spese militari nel 1989 a circa il 3 per cento in dieci anni. Da quel momento in poi, le spese per la difesa nel mondo, andarono declinando passando da 847 miliardi di dollari del 1992 ai 756 del 2000 (fonte Sipri, Istituto internazionale di ricerca sulla pace di Stoccolma, ndr)

La nuova corsa agli armamenti

Poi è arrivato l’11 settembre, i conflitti in Afghanistan e Iraq e si è aperta una nuova stagione di corsa agli armamenti, al passo con il nuovo millennio. Ora, con l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, i rumors di guerra tra Usa e Cina per Taiwan e i venti nucleari che spirano dall’Iran, la situazione sembra sfuggita di mano e blocchi di nazioni così come paesi singoli, si stanno attrezzando come mai prima in questo secolo. Dal 2001 in poi, si è assistito a un aumento graduale delle spese militari nel mondo con un’impennata dal 2015 che ha condotto nel 2022 a una crescita  di spesa per la difesa a livello mondiale di quasi il 4 per cento in termini reali e a superare i due miliardi di dollari.

Come riporta l’Economist, nel frattempo, i prezzi delle azioni delle aziende del settore hanno registrato un andamento migliore rispetto al mercato azionario complessivo mentre l’obiettivo che la Nato aveva dato a ogni paese membro di arrivare al 2 percento del Pil da destinare alla difesa, si sta rapidamente trasformando in a floor, not a ceiling, un punto di partenza non di arrivo. Il numero di paesi Nato che hanno già raggiunto l’obiettivo del 2 per cento è passato da tre nel 2014 a sette l’anno scorso e ci si aspetta che il tema sarà uno dei punti più caldi nel corso del vertice che si terrà in Lituania a luglio.

La Polonia punta a raggiungere il 4 per cento entro il 2023 e a raddoppiare le dimensioni del suo esercito, la Francia, per bocca del suo ministro della Difesa Lecornu, vuole un aumento di investimento nei sistemi di difesa cibernetici, spaziali e sottomarini mentre Macron parla senza mezzi termini di un passaggio del suo paese a un’«economia di guerra». La Germania ha già dichiarato di voler superare il tetto del 2 percento, il Giappone prevede di aumentare a 51,4 miliardi di dollari le spese militari, facendo registrare una crescita del 26,3 percento rispetto al 2022. Fa eccezione il Canada che, come dichiarato dal premier Justin Trudeau, non ha intenzione di «raggiungere mai» l’obiettivo del 2 percento.

Il resto del mondo, ovviamente, non sta a guardare. Negli ultimi dieci anni le spese militari dell’India sono cresciute di circa il 50 per cento esattamente come nel suo vicino e storico nemico Pakistan. Il budget della difesa cinese è aumentato di circa il 75 per cento nell’ultimo decennio. I paesi del Golfo aumentano le spese così come vari stati africani, primo fra tutti l’Algeria che proprio qualche mese fa ha siglato un accordo monstre di circa 12 miliardi di dollari con Mosca per l’acquisto di armamenti che la porterà a un aumento atteso di spese allocate alla difesa del 130 per cento.

Siamo davvero sicuri?

Nei decenni successivi alla guerra fredda, per citare un dato molto significativo riportato dall’Economist, il mondo ha “liberato” circa 4 trilioni di dollari all’anno di spese militari che sono finiti alle infrastrutture, i servizi pubblici o utilizzati per ridurre il debito o le tasse.

Ora? La questione dell’aumento delle spese militari pone, tra tante, due domande fondamentali: se si spende da una parte in quale altra si risparmia? E, è più sicuro un mondo iperarmato?

«Il vantaggio economico – spiega Francesco Vignarca, coordinatore delle Campagne Rete Pace Disarmo – è per pochi, alcuni settori industriali e pezzi di politica traggono profitti enormi ma se vediamo i dati sia assoluti che relativi, l’investimento in armi non è per niente vantaggioso e va a scapito di altri. Ci sono molti più posti di lavoro e ritorno economico in settori come l’energia pulita, l’istruzione, la cura sanitaria. Come spiega The Job Opportunity Cost of War (Heidi Garrett Peltier), un milione di dollari di spesa militare crea meno posti di lavoro rispetto alla stessa spesa in altri nove settori. La spesa per l’istruzione elementare e secondaria è quella che crea più posti di lavoro, con 19,2 per un milione di dollari. Sostenere che le spese militari avvantaggino l’economia è un falso senza alcun dubbio. L’aumento delle spese militari, inoltre, rende più insicuro il mondo perché prepara gli stati a rispondere in maniera armata a qualsiasi tipo di diseguaglianza o insicurezza. Dai dati in nostro possesso l’aumento di spesa può trasformare una situazione di tensione in una di conflitto aperto con più facilità».

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