Ad alcuni paesi la storia assegna di tanto in tanto un ruolo da laboratorio per il resto del mondo. A volte sono piccoli e periferici. Il Cile è uno di questi luoghi che suscitano più interesse di quanto sarebbe lecito aspettarsi. È successo due volte nel Novecento, e ora di nuovo.

La notte del voto

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Domenica il paese sudamericano ha scelto un presidente di 35 anni, esattamente l’età minima prevista dalla sua Costituzione. È un millennial perfetto Gabriel Boric Font, con barba regolamentare e tatuaggi vari sulle braccia. L'ultimo, tre anni fa, l'ha pubblicato sui suoi social, ringraziando l'artista a lavoro finito. Un faro sul mare illuminato dalle stelle sull'avambraccio destro. È l'oceano tempestoso della mia Patagonia, ha spiegato Boric, nato e cresciuto a Punta Arenas, la città più a sud del Cile, terra di pinguini, vento implacabile e discendenti di slavi che allevano mucche. Anche lui potrà dire, come Jorge Bergoglio appena eletto Papa, «siete andati a cercarne uno alla fine del mondo».

«Fin del mundo», è come cileni e argentini chiamano la loro Patagonia. Terra di storie e personaggi sorprendenti, come ci ha spiegato nei suoi diari Bruce Chatwin.

Eccone un altro. Boric fino a pochi mesi fa era soltanto un giovane deputato, ex dirigente degli studenti universitari (quelli cileni sono i più tosti al mondo). La barba era meno curata e i capelli più lunghi, e portava berretto da baseball e chiodo di pelle, alla Fonzie (o Renzi). Non poteva immaginare di poter succedere al suo rivale numero uno, il bolso miliardario Sebastian Piñera, presidente uscente, e fermare l’onda super conservatrice del nostalgico di Pinochet, José Antonio Kast.

Domenica sera Piñera ha avuto anche il dubbio gusto di fare una battuta sul gap generazionale, durante la civile telefonata che è sempre una consuetudine in Cile tra chi esce e chi ha vinto, ed è diffusa al pubblico a poche ore dalla chiusura delle urne. «Gabriel, quando ti insedi a marzo fatti una foto, e poi un'altra dopo quattro anni. Fare il presidente è durissima». «Grazie, ora speriamo di governare meglio di lei», è stata la piccata risposta di Boric.

L’euforia per le strade di Santiago

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«El pueblo unido...», si cantava domenica notte a Santiago e in altre città del Cile, nel più celebre slogan esportato da queste piazze al mondo. E in effetti il popolo cileno è risultato assai meno spaccato di quanto immaginavano i sondaggi. Boric ha vinto con oltre undici punti di vantaggio, un trionfo ogni oltre previsione.

La spiegazione, da cui il flop degli statistici, è l'enorme affluenza, perché al ballottaggio hanno votato mezzo milione di persone in più che al primo turno, e il sospetto è che quasi tutti siano giovani che hanno deciso di andare al seggio.

I quali non si sono fatti scappare l'occasione di portare al palazzo della Moneda un loro coetaneo, e soprattutto hanno scelto di non far tornare indietro il Cile. Lo sconfitto Kast avrebbe difatti cercato di far saltare la legge sull’interruzione di gravidanza, approvata soltanto quattro anni fa, e tuttora assai restrittiva, e quella sulle unioni civili, anch’essa recentissima.

Avrebbe costruito muri alla Trump, un fossato al nord per evitare che i poveri venezuelani continuino a entrare illegalmente attraverso il deserto, o stretto la morsa dell'esercito contro i ribelli Mapuche al sud, i discendenti degli indios che vogliono indietro le terre dei loro antenati.

Il problema è che i temi forti della destra esistono, non sono stati inventati dal nulla. Mai il Cile aveva avuto un'ondata migratoria così improvvisa e disordinata, e i rivoltosi del sud usano armi e dinamite, non margherite. Anche la violenza urbana è crescente, in quello che è sempre stato il paese più sicuro del continente.

La sfida

Ecco dunque la sfida per il giovane Boric e il ritorno del Cile a laboratorio sul quale puntare gli occhi, dopo le due volte del secolo scorso. Nel 1970 la vittoria di Salvador Allende è il primo tentativo di un paese capitalista di passare al socialismo per via elettorale.

Finisce con un tracollo economico e nel sangue, con il golpe militare dell'11 settembre 1973 appoggiato dagli Stati Uniti. Su quell'onda emotiva da noi il segretario del Pci Enrico Berlinguer lancia la proposta del compromesso storico, sostenendo che in Occidente la sinistra non poteva governare da sola. Sia l'esperimento di Allende sia l'alternativa “eurocomunista” ebbero vita breve.

Pochi anni dopo in Cile arriva la rivoluzione liberista dei tecnocrati chiamati dalla dittatura di Pinochet. Senza opposizione politica o sindacati, e con le armi in mano, imporre quel programma è chiaramente più semplice e anche diffonderne le virtù. Come quella fallace sui vantaggi di un sistema pensionistico totalmente privato, che viene studiato e esaltato a lungo nei master di economia di tutto il mondo.

Oggi quel sistema sta offrendo assegni da fame ai pensionati, ed è un rebus bestiale tentare di venirne fuori. Due decenni di governi di centrosinistra non ci sono riusciti, Boric ha promesso di cancellarlo e ripristinare la previdenza pubblica. «Se il Cile è stata la culla del neoliberalismo, con noi sarà adesso la sua tomba», è uno dei suoi slogan più efficaci.

Fino al primo turno Gabriel Boric è stato soltanto il candidato del cosiddetto Frente Amplio, una eclettica coalizione di vari movimenti di protesta, e dello storico Partito comunista cileno. Quindi il nuovo presidente sarebbe più a sinistra di Allende, se un paragone è possibile, e dei governi a guida socialista che si sono succeduti dopo il ritorno alla democrazia. Per battere la destra e vincere le diffidenze, Boric ha poi dovuto ripiegare al centro ottenendo l'appoggio dei moderati socialisti e democristiani. Ma i temi forti restano quello di un millennial con una agenda fortemente progressista.

L'ambiente, i diritti civili, i diritti delle minoranze, degli indios, degli animali. Nel discorso dopo la vittoria ha ringraziato «tutti i popoli che abitano questo posto che chiamiamo Cile», una frase che nessun capo di Stato prima di lui si sarebbe sognato di pronunciare.

Per far passare questa agenda progressista, insieme a profondi cambiamenti nel sistema scolastico e sanitario, i movimenti che appoggiano Boric non pensavano certo di poterlo fare dalla presidenza.

La strada scelta dopo la rivolta dell'ottobre 2019, l’esplosione sociale innescata dall'aumento dei prezzi degli autobus a Santiago, e poi durata settimane, era stata quella di chiedere la riscrittura da zero della Costituzione in vigore, che è tuttora quella voluta da Pinochet nel 1980.

Negli ultimi due anni i cileni hanno votato varie volte, ha sempre vinto lo schieramento per il sì, e una Costituente è installata e pronta a iniziare i lavori. La maggioranza è saldamente in mano alla sinistra, ed è ovvio perché per la destra la Carta in vigore è ancora ottima e non c'era bisogno di cambiarla. In teoria la sintonia tra la presidenza e la nuova assemblea dovrebbe facilitare le cose.

Ma i problemi non sono soltanto di natura politica. Boric dovrà gestire un bilancio dello stato sfiancato dal deficit causato dalla pandemia, perché il Cile è stato uno dei paesi più generosi con i cittadini e le imprese durante i lockdown.

Per mantenere le promesse di un paese meno classista nelle aule scolastiche e negli ospedali servono soldi, e quelli che deriverebbero da un aumento delle imposte ai più ricchi o all'industria del rame, la principale attività del paese, potrebbero non bastare.

Dalla sua ha una crescita del Pil del 12 per cento nel 2021, che gli lascerà in eredità Piñera. Boric non avrà una maggioranza parlamentare di partenza, ma è considerato un buon negoziatore. Per molti osservatori, più che conquistare consensi al centro, il suo problema principale sarà tenere a bada le richieste alla sua sinistra, soprattutto dei comunisti lontani da tempo dal potere e che si considerano i principali vincitori.

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