«In conclusione, devo dire agli uomini di buona volontà, agli operai, ai poeti, che tutto il futuro era espresso in quella frase di Rimbaud: solo con ardente pazienza conquisteremo la splendida città che darà luce e dignità a tutti gli uomini. Così la poesia non avrà cantato invano». Con queste parole, il 31 dicembre del 1971, Pablo Neruda concludeva il suo discorso di accettazione del premio Nobel per la letteratura.

La comunicazione ufficiale dell’assegnazione del prestigioso riconoscimento era giunta al poeta cileno poco più di due mesi prima, il 21 ottobre. In tale circostanza l’Accademia svedese aveva giustificato la decisione con il fatto che la sua poesia «con l’effetto di una forza naturale, fa rivivere i destini e i sogni di un continente».

Dagli anni Settanta a oggi

Sono passati cinquant’anni da quel riconoscimento conferito a uno dei più grandi e discussi intellettuali latinoamericani del Ventesimo secolo. Mezzo secolo durante il quale il suo paese, il Cile, ha vissuto pagine di storia di ogni colore. Dall’utopia rivoluzionaria del periodo di Salvador Allende alle tenebre autoritarie di Augusto Pinochet, dall’alegría ya viene in occasione del plebiscito del 1988 alla democrazia posticcia che ha sì garantito stabilità politica e crescita macro economica, ma al carissimo prezzo di continuare a distruggere il tessuto della società, arricchendo pochi e lasciando indietro tanti, troppi, cileni e cilene.

Che la democrazia seguita, nel 1990, alla lunga stagione del regime civico-militare fosse fragile e minata dai tanti condizionamenti posti dai militari soprattutto con la costituzione del 1980, molti se ne sono accorti solo dopo quasi un trentennio. Le proteste dell’ottobre del 2019, originate dall’aumento del prezzo del biglietto della metropolitana, si sono trasformate, infatti, ben presto in una rivolta sociale e in una esplosione di rabbia collettiva contro quella transizione democratica negoziata dai militari e dai civili – nei fatti imposta dai primi – e, più in generale, nell’intera evoluzione del processo politico ed economico cileno post-dittatoriale. Proteste da cui è emerso, infatti, il netto rifiuto per quel modello di società ereditata dai militari e rafforzata in democrazia, profondamente individualista, diseguale, ingiusta, classista.

Non a caso, nella ‘colonna sonora’ di quelle settimane di mobilitazione hanno fatto parte in particolare due canzoni del principio degli anni Settanta del Novecento, Hemos dicho basta (Abbiamo detto basta) del gruppo di musica popolare Tiempo Nuevo e El derecho de vivir en paz (Il diritto di vivere in pace) di Víctor Jara. E, soprattutto, sempre non a caso, da quella rivolta sociale caotica e rumorosa, al principio pure violenta, è scaturita forte la richiesta di adozione di una nuova Costituzione, oggetto del lavoro dell’assemblea costituente nata con il voto del maggio scorso e che dovrebbe redigere la nuova carta entro la primavera dell’anno prossimo. Legge fondamentale che dovrebbe, altresì, stando ai lavori di questi mesi, garantire maggiore equità, accesso gratuito a istruzione e salute, parità di genere e pieno riconoscimento dei diritti dei popoli originari, rispetto e protezione dell’ambiente.

Nell’ottobre di due anni fa e nei mesi successivi, quindi, prima che l’inizio della pandemia mettesse a tacere in Cile ogni forma di dissenso, il pensiero di molte cilene e cileni, di coloro che lo avevano vissuto in prima persona e di chi, invece, lo aveva potuto solo immaginare attraverso le nostalgiche e spesso dolorose ricostruzioni di parenti e amici, è andato al triennio di Unidad popular, a quegli anni durante i quali in Cile era presente una felicità diffusa e per certi versi incontrollata, un alto livello di partecipazione e di solidarietà. Anni, in cui, quella parte di popolazione che si riconobbe nel progetto di Salvador Allende, si illuse che un altro mondo fosse possibile.

Per dirla con le parole del cineasta Patricio Guzmán, al principio degli anni Settanta il paese «era in uno stato di emozione, di mobilitazione e di entusiasmo fantastico. È stato il momento più felice per il Cile negli ultimi cento anni». Anche un periodo di “esplosione culturale”, durante il quale a Neruda venne finalmente attribuito quel Nobel che per molto tempo gli era stato negato; ad esempio nel 1963, quando, in seguito a una violenta campagna internazionale nei suoi confronti, l’Accademia svedese decise all’ultimo istante di assegnare il premio al poeta greco Giorgios Seferis. Questo, del resto, è ciò che è emerso dal ricordo che poco dopo la morte di Neruda fece uno dei più fini conoscitori in Italia – e amico personale – del “poeta civile”, Giuseppe Bellini.

Se fosse sopravvissuto

Quando a Neruda fu conferito il Nobel, il governo di Allende poteva fregiarsi di un andamento economico ancora favorevole, la destra economica e politica non aveva affilato le armi e il golpe non era all’orizzonte. Tuttavia, il poeta cileno non avrebbe avuto molto tempo per godersi il tanto agognato riconoscimento. Sarebbe, infatti, deceduto poco meno di due anni dopo e ad appena dodici giorni dal tragico colpo di stato dell’11 settembre del 1973.

Se fosse sopravvissuto alla malattia e agli artigli della dittatura, molto probabilmente avrebbe abbandonato il paese, acquisendo lo status di esule, come del resto gli era già capitato altre volte nel corso della sua vita. Come dopo l’emanazione, nel 1948, della legge di difesa permanente della democrazia (cosiddetta ley maldita, legge maledetta) che relegò nell’illegalità il partito comunista cileno e diede il via, anche in Cile, a una vera e propria caccia alle streghe tipica del conflitto bipolare e sulla falsariga di quanto stava avvenendo nei vicini Stati Uniti. In quanto deputato comunista, infatti, Neruda fu accusato di tradimento e costretto, nel 1949, a riparare in Messico, paese dal quale avrebbe compiuto lunghi viaggi in Europa. Come ha raccontato l’ex ambasciatore cileno in Italia nel suo libro Pablo e Matilde. I giorni dell’esilio, il premio Nobel avrebbe vissuto per un breve periodo pure nel nostro paese, tra il dicembre del 1951 e il luglio del 1952.

Probabilmente Neruda non si sarebbe trovato a proprio agio nemmeno con i frutti indigesti della democrazia post-pinochettista contraddistinta, fra le varie cose, da un’altissima concentrazione della ricchezza, enormi disuguaglianze economiche e socio-culturali, egemonia del mercato e del privato sul pubblico in quasi tutti i campi, a cominciare dall’istruzione e dalla sanità. Né, tantomeno, avrebbe accolto di buon grado il fatto che la ricerca della verità sulle sistematiche violazioni dei diritti umani e sui crimini perpetrati dai militari siano stati improntati a lungo alla prudente tesi della “giustizia nella misura del possibile”, come sostenuto dal primo presidente democratico Patricio Aylwin. Per non parlare della narrazione tossica di un paese finalmente coeso e proiettato senza lacerazioni verso un radioso futuro di prosperità e sviluppo.

Continuando a fantasticare, si può immaginare che avrebbe invitato prima o poi il Cile a guardarsi allo specchio per rendersi conto di quel che è stato spesso nel corso della sua storia: un paese vulnerabile, ingabbiato in logiche escludenti, con una identità sospesa tra la lontana Europa, gli Stati Uniti e l’America Latina.

Neruda non fu solo un grande poeta civile; fu anche un diplomatico e un militante politico, un testimone qualificato di eventi cruciali della storia del Cile, dell’America Latina e di quella internazionale. Il premio Nobel per la letteratura gli fu assegnato per il «valore artistico della sua opera», ma anche, come ricordò il segretario dell’Accademia svedese, Karl Ragnar Hierow, perché Neruda era un «autore controverso che non solo è contestato, ma per molti è anche discutibile. Questa discussione va avanti da quarant’anni, il che dimostra che il suo contributo è indiscutibile». 

In tempi di appiattimento politico e culturale, di false verità veicolate dai social network, di navigazione a vista in tanti ambiti, può essere utile ricordare un intellettuale che fu spesso controcorrente e al tempo stesso capace di indicare la rotta ai naufraghi del suo tempo.

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