Per le strade di Çarşamba, tra i quartieri più conservatori del distretto stambuliota di Fatih, le bandiere della Turchia si alternano a quelle del partito Giustizia e Sviluppo (Akp) e ai ritratti del presidente Recep Tayyip Erdogan, eletto ancora una volta alla guida del paese.

Caroselli di macchine hanno invaso le vie principali del quartiere, mentre da altre parti della città i rumori dei fuochi di artificio si mescolavano con quelli dei colpi di pistola sparati in aria dalla folla festante.

Scene simili si sono ripetute in tutte le città turche, in particolar modo in quelle in cui il presidente ha ottenuto il maggior numero di voti, mentre in migliaia hanno atteso l’arrivo del loro leader ad Ankara per ascoltare il suo primo discorso da presidente neo-eletto.

L’esito delle urne ha certamente galvanizzato i sostenitori di Erdogan, ma ha gettato nello sconforto chi ha sperato fino all’ultimo nel successo dell’opposizione e in un cambiamento che, per la prima volta in vent’anni, sembrava possibile.

In realtà la vittoria di Erdogan era data quasi per scontata nel paese dopo il risultato del primo turno, ma in tanti continuano a chiedersi come abbia fatto il leader turco a mantenere una base elettorale così salda nell’arco di vent’anni.

Divisioni interne

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La risposta è rintracciabile prima di tutto nelle divisioni sociali e religiose che ancora regolano i rapporti di forza all’interno della Turchia e che Erdogan ha ulteriormente amplificato negli ultimi dieci anni, con vantaggi evidenti a livello elettorale. Il paese infatti è nettamente spaccato a metà e le due parti – quella conservatrice e quella laica – continuano a vivere separatamente, con occasioni di incontro quasi del tutto inesistenti.

Per la componente più conservatrice, Erdogan rappresenta un leader indiscusso nonché l’unico in grado di proteggere quei valori religiosi a lungo censurati dalla nascita della Repubblica turca in poi.

Per decenni a dominare in Turchia sono stati i cosiddetti “turchi bianchi”, ossia la componente laica e liberale, più vicina agli ideali dell’occidente e a cui sono stati riservati i posti più importanti all’interno del mondo economico e politico. Con Erdogan invece questa dinamica è stata ribaltata: negli ultimi vent’anni è emersa una nuova classe sociale, quella della borghesia conservatrice, che ha preso il potere nel paese e che ha potuto esprimere liberamente i propri valori religiosi.

Per questa parte di popolazione, forte soprattutto nell’Anatolia centrale, la vittoria dell’opposizione rappresentava una seria minaccia alla loro nuova condizione sociale e alla loro stessa libertà di espressione. Tra le donne in particolare era forte il timore di nuove restrizioni sull’uso del velo in alcuni luoghi pubblici, un divieto che è rimasto in vigore in Turchia fino al 2008 ed eliminato proprio da Erdogan, che non ha esitato a fare campagna elettorale su questo tema.

Al presidente turco viene anche riconosciuto il merito di aver fatto crescere economicamente la Turchia, di aver dotato il paese di numerose infrastrutture moderne e di aver approvato una serie di riforme sociali e di sostegno al welfare che hanno permesso alle fasce meno abbienti di avere accesso all’istruzione, alla sanità, alla casa e di poter aspirare a uno stile di vita migliore rispetto al passato.

A ciò va poi aggiunto il successo che il presidente è riuscito a raccogliere tra la componente più nazionalista, soddisfatta e affascinata dal ruolo che la Turchia adesso gioca nello scacchiere internazionale grazie all’assertività del suo presidente, in particolare nel contesto della guerra in Ucraina.

Ma a giocare in favore di Erdogan è stato anche quel sistema di influenze e di relazioni che lui e le persone a lui più vicine hanno saputo intessere negli ultimi vent’anni. Per chi fa parte di questa rete, la sconfitta di Erdogan rappresentava una minaccia ai loro interessi economici, preponderanti rispetto alla restrizione dei diritti umani o alla mancanza di giustizia nel paese nel momento di scegliere quale candidato sostenere.

Tutte queste dinamiche hanno permesso al presidente di trionfare nonostante l’aumento del costo della vita e la disastrosa gestione dell’economia e della fase immediatamente successiva al terremoto, tutti elementi che per molti analisti avrebbero invece dovuto determinare l’esito delle elezioni.

Le responsabilità dell’opposizione

A contribuire alla sconfitta dell’opposizione è stata anche la retorica nazionalista adottata da Kemal Kilicdaroglu nelle ultime due settimane e l’alleanza siglata con il partito di estrema destra Zafer, due elementi che hanno alienato parte del voto curdo.

Nelle province a maggioranza curda del sud-est l’affluenza è passata dall’81.7 al 76.7, un calo lieve rispetto al primo turno ma che ha fatto la differenza in una corsa per la presidenza particolarmente serrata.

Il rischio però è che l’opposizione perda parte del sostegno curdo anche alle prossime elezioni municipali previste per il 2024. Alle amministrative del 2019 il supporto della minoranza era risultato fondamentale per il successo dei candidati dal partito repubblicano a Istanbul e Ankara, due città che Erdogan ha promesso di riportare sotto il controllo del suo partito.

Certamente il controllo che il presidente esercita su media, magistratura, comitato elettorale e forze dell’ordine ha giocato un ruolo importante nel determinare l’esito delle elezioni e dimostra come sia ormai difficile definire la Turchia una democrazia, nonostante anche un’affluenza alle urne molto alta.

Il rischio però è che si passi a breve da un autoritarismo competitivo – in cui le elezioni vengono ancora indette ma chi è al potere limita gli spazi di manovra dell’opposizione – a una vera e propria autocrazia. La scelta di Erdogan di parlare alla nazione non più dalla sede del suo partito ma dal palazzo presidenziale di Ankara, fatto costruire da lui stesso negli ultimi anni, sembra un indizio del futuro politico che attende il paese.

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