La Turchia del presidente Recep Tayyip Erdogan sta diventando sempre più assertiva in politica estera e la clamorosa minaccia di Ankara espressa sabato scorso di espulsione degli ambasciatori di dieci paesi – tra cui Stati Uniti, Francia e Germania – per aver chiesto il rilascio del filantropo dissidente Osman Kavala, detenuto da oltre quattro anni nelle carceri turche, è solo l’ultima di una serie di sfide, un tempo inimmaginabili, lanciate da un fedele paese della Nato.

Certo, dopo la ferma reazione dell’ambasciata degli Stati Uniti, che in una nota ha sottolineato come l’appello rispetti la convenzione di Vienna sulle relazioni diplomatiche, ora si registrano timidi segnali di retromarcia da parte del governo di Ankara. Ma il guanto della sfida è stato lanciato.

Un atteggiamento di contrapposizione che coinvolge la Turchia anche su altri quadranti dove Erdogan sta abbandonando la strategia neo-ottomana, cioè di riconquista degli ex territori dell’impero dei sultani di Istanbul in medio oriente, nei Balcani e nel Mediterraneo, per espandersi in nuove aree di conquista. Un salto strategico che trasforma il paese da potenza regionale a potenza globale.

Linea di espansione

Possibile? Erdogan sta cercando di costruire un rapporto sempre più stretto con i paesi dell’Africa in settori sia economici sia militari con la vendita dei droni Bayraktar TB2, ideati dall’ingegner Selcuk Bayraktar, diplomatosi al Mit (Massachusetts Institute of Technology). 

Figaro, in un articolo a firma di Renaud Girard dal titolo “Erdogan renforce son implantation africaine” (“Erdogan rafforza la sua presenza africana”) scrive, dopo essersi chiesto che ci va a fare Erdogan nel golfo di Guinea così lontano dal Bosforo, che Ankara «vuole vendere i suoi droni in Africa» e «giocare un ruolo di primo piano al fianco dei grandi come la Cina, la Francia e l’America».

Droni che, dice Girard, sono risultati vincenti in Azerbaijan, nel bloccare l’offensiva verso Tripoli del generale Haftar e dei mercenari russi del gruppo Wagner oltre che nella «neutralizzazione» del dirigente curdo Ismail Ozden, del Pkk a Sinjar nel nord-ovest della Iraq e a Idlib, nel nord della Siria.

Partner commerciale

Che Ankara voglia rapporti più stretti con l’Africa lo ha dichiarato lo stesso Erdogan, prima della sua partenza per la visita in Angola, Nigeria e Togo. Il commercio turco con i paesi africani ha superato i 25 miliardi di dollari nel 2020.  Era 5 miliardi dal 2000 al 2010.

Per avere un termine di paragone, nei primi dieci mesi del 2021, l’Italia si posiziona, secondo i dati del ministero degli Esteri, come sesto partner commerciale di Ankara con appena 13,6 miliardi di interscambio totale (-13,9 per cento) rispetto al 2019, di cui 7,2 miliardi di importazioni (-6,4 per cento) e 6,4 miliardi di esportazioni (-20,9 per cento) e un saldo negativo per la Turchia di 745 milioni di dollari.

Nel periodo gennaio-ottobre 2020, l’Italia si conferma il quinto fornitore della Turchia dopo Cina, Germania, Russia, Stati Uniti e il quinto cliente dopo Germania, Regno Unito, Stati Uniti e Iraq. Insomma il nostro paese (e la Ue in generale) non brilla più come un tempo sul Bosforo e la Turchia cerca nuovi sbocchi su mercati emergenti in medio oriente, Asia centrale e ora nell’Africa occidentale.

La rete diplomatica

L’interscambio turco con l’Africa è esploso grazie a un paziente lavoro di potenziamento delle reti di missioni diplomatiche nel continente.  La Turchia ha rapidamente ampliato il suo raggio d’azione in Africa da quando Erdogan è salito al potere nel 2002 al posto di un governo laico presieduto da Bulent Ecevit e dal ministro dell’Economia, Kemal Dervis, l’artefice del programma di ripresa dell’economia turca ed ex capo del Programma di sviluppo economico delle Nazioni Unite.

L’esecutivo di Ecevit ha varato nel 2001 le impopolari riforme strutturali ma ha perso le elezioni l’anno dopo a favore del partito filo-islamico Akp di Erdogan che non ha modificato le linee economiche del precedente governo e ne ha ricevuto beneficio portando il reddito medio pro capite del paese da 2.500 a 10mila dollari in dieci anni.

Erdogan deve molto in politica estera anche all’ex premier Turgut Özal (1982) che per primo ha cercato di rilanciare le ambizioni turche nel solco dell’eredità imperiale ottomana. Tutte idee riprese dall’ex ministro degli Esteri di Erdogan, Davutoglu, con il suo libro sulla profondità strategica.

Ora, con il viaggio in Africa occidentale, i confini di influenza di Ankara si ampliano ulteriormente in aree che non hanno mai visto il dominio ottomano. È una sorta di passaggio del Rubicone visto che il presidente turco ha effettuato 38 visite nel continente africano per un totale di 28 paesi africani visitati dal 2002.

Il viaggio nell’Africa occidentale

Il 18 ottobre scorso Erdogan è atterrato in Angola, ex colonia portoghese collocata sulla via delle Indie dell’ex impero di Lisbona, dove il presidente turco è stato ricevuto dall’omologo Joao Manuel Goncalves Lourenco, reduce da una visita in Turchia che a luglio aveva portato alla firma di dieci accordi tra i due paesi.

Durante la conferenza stampa che ha seguito il faccia a faccia tra i due, Joao Lourenco ha dichiarato in portoghese: «L’Angola è membro della Comunità di sviluppo dell’Africa meridionale, della Conferenza internazionale della regione dei Grandi laghi, della Comunità economica degli Stati dell’Africa centrale. La Turchia non ha raggiunto una cooperazione totale con l’Angola ma sicuramente è riuscita a dialogare con queste tre organizzazioni». Un segnale importante di apertura a un paese che si affaccia in Angola per la prima volta.

Va segnalato che l’Angola, dove opera da decenni l’Eni in attività di estrazione e di esplorazione, è secondo l’Eia, l’agenzia americana per l’energia, «il secondo produttore di petrolio in Africa, dopo la Nigeria. L’economia dell'Angola dipende fortemente dalla produzione di idrocarburi, rendendo la sua economia vulnerabile alle oscillazioni del prezzo del greggio. Secondo la Banca mondiale, il settore del petrolio greggio rappresenta circa un terzo del Pil del paese e oltre il 90 per cento delle esportazioni totali».

L’Eia sottolinea come «l’Angola è anche attualmente impegnata in trattative sul suo onere per il servizio del debito con la Cina. Una parte significativa del suo debito estero è dovuta a entità governative cinesi sotto forma di prestiti garantiti dal petrolio e rimborsi diretti».

Così nella visita a Luanda, Erdogan oltre a discutere le modalità per aumentare il volume degli scambi commerciali, si è inserito come nuovo player africano nei confronti della Cina.

Dal 18 al 19 ottobre, il capo dello Stato turco si è recato in Nigeria, ex colonia britannica e stato indipendente dal 1960. La Nigeria è, con 1,8 milioni di barili al giorno nel 2020, l’undicesimo produttore di petrolio al mondo. L’industria petrolifera pesa per il 10 per cento del Pil nigeriano e per il 90 per cento dell’export del paese.

Il viaggio è arrivato a cinque anni di distanza dall’ultima visita di stato di Erdogan ad Abuja, avvenuta nel marzo 2016, e a quattro anni dell’incontro ad Ankara tra il presidente turco e l’omologo nigeriano Muhammadu Buhari. L’ultima tappa del tour di Erdogan è stata il Togo, ex colonia tedesca e poi francese. Lo scorso agosto, il presidente turco ha avuto una conversazione telefonica con l’omologo togolese Faure Essozimna Gnassingbe.

La visita di Erdogan in Africa anticipa il terzo vertice del partenariato Turchia-Africa che si terrà a Istanbul il 17-18 dicembre. L’apertura della Turchia all’Africa ha preso forma nel 2005. Dal 2009 Ankara ha aumentato la sua presenza diplomatica nel continente africano, passando da 12 ambasciate (di cui cinque in nord Africa) alle attuali 43 sedi diplomatiche mentre gli europei dal 2000 si disinteressavano sempre più dell’Africa.

Ankara ha prima puntato su paesi islamici come Somalia e Libia e poi ha esteso la rete diplomatica e dei suoi servizi segreti, come si è visto nel caso dell’italiana rapita in Somalia e liberata grazie all’intervento dei turchi.

In concomitanza con il consolidamento dei rapporti tra Turchia e paesi africani, anche i servizi di collegamento aereo e di cooperazione sono stati ampliati. Oggi la Turkish Airlines, il braccio alato della diplomazia turca, prevede collegamenti verso 60 destinazioni in Africa, in 39 paesi, mentre l’Agenzia turca per la cooperazione internazionale (Tika) ha quasi 30 centri di coordinamento nel continente.

Dopo aver posto forti capisaldi nel Corno d’Africa con l’apertura di una base militare nel 2017 sul litorale a Mogadiscio, così da disporre di una finestra strategica sul Mar d’Arabia, il Golfo di Aden e il Mar Rosso – la rotta commerciale tra l’Asia e l’Europa – con il viaggio in Africa occidentale, Erdogan porta la politica estera turca al livello d’intervento di una potenza globale pronta a sfidare la Francia, la Gran Bretagna, gli Stati Uniti e la Cina di Xi Jinping.

Ecco perché la minaccia di espellere i dieci ambasciatori occidentali non è che l’ultimo segnale di una rinnovata volontà di potenza globale pronta a giocare il suo ruolo in quadranti come quello africano un tempo appannaggio di altri attori internazionali.

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