Si è aperta martedì 9 settembre all’ExCeL di Londra la Defence and Security Equipment International (Dsei), la più grande fiera mondiale della difesa, che fino al 12 settembre accoglierà oltre 1.600 espositori e 45mila visitatori. L’edizione 2025 nasce già sotto polemica: il governo britannico ha escluso la delegazione ufficiale di Tel Aviv a causa dell’escalation militare a Gaza, ma le aziende israeliane non hanno rinunciato. Cinquantuno in totale, con i tre colossi Elbit, Rafael e Israel Aerospace Industries in prima fila.

Il padiglione nazionale israeliano è stato cancellato, eppure gli stand non mancano. Le imprese si presentano da sole o attraverso controllate estere. Per il ministero della Difesa di Tel Aviv si tratta di «un atto di discriminazione», per le ong pacifiste è la prova che i contratti vengono prima della politica. «Complicità nel genocidio», accusa Campaign Against Arms Trade, che ricorda come droni e munizioni in vetrina siano gli stessi utilizzati nei bombardamenti degli ultimi mesi.

La stessa accusa si appoggia anche alla sentenza della Corte internazionale di giustizia, che ha definito «plausibile» l’ipotesi di genocidio a Gaza: un precedente che trasforma la protesta in un richiamo giuridico, non solo etico.

Un’accelerazione di contratti

La presenza israeliana si misura nei prodotti più controversi. Elbit porta i droni Hermes e le bombe MPR 500, Rafael i missili Spike e il sistema Iron Dome, IAI i radar Green Pine e l’Heron TP. Tutti sistemi già impiegati a Gaza. La forza commerciale sta proprio in quell’etichetta: «Battle-tested». È ciò che per gli attivisti equivale a dire «testato sui civili».

Ma la Dsei non è solo Israele. Accanto agli stand israeliani ci sono Lockheed Martin e BAE Systems, i due protagonisti della filiera F-35. Il Regno Unito produce oltre il 15 per cento di ogni velivolo, con 75 aziende coinvolte e stabilimenti che forniscono fusoliere e sistemi di puntamento. Lo stesso caccia con cui l’aeronautica israeliana ha colpito Gaza nelle ultime operazioni. Londra aveva sospeso 30 licenze di esportazione verso Israele nel settembre 2024, ma non quelle legate al programma F-35: un’eccezione che dimostra quanto sia difficile separare le scelte industriali dagli impegni politici.

Le esportazioni militari israeliane hanno raggiunto nel 2024 un record di 14,7 miliardi di dollari, con oltre metà dei contratti firmati in Europa. La Dsei diventa così un moltiplicatore di un’industria che cresce grazie ai conflitti, e che a Londra trova un pubblico garantito di generali, delegazioni e funzionari in cerca di fornitori. Non è un dettaglio: l’80 per cento dei visitatori dichiara di partecipare con l’obiettivo di chiudere affari, un dato che fa della fiera non solo una vetrina ma un acceleratore di contratti immediati.

Fuori dall’ExCeL, oltre cento organizzazioni hanno lanciato la campagna “The Big One: Shut DSEI Down”. La parola d’ordine è bloccare la fiera, accusata di ospitare aziende che «vendono armi testate nel genocidio». Sono previsti sit-in e cortei per tutta la settimana, con un dispositivo di sicurezza che richiama quello del 2017, quando gli arresti furono oltre cento e il costo della polizia superò il milione di sterline. La differenza è che quest’anno la protesta è sostenuta anche da movimenti ambientalisti e gruppi interreligiosi, a conferma di come la Dsei sia diventata un simbolo più ampio della critica all’economia di guerra.

Salvare gli affari

Dentro i padiglioni, il governo britannico presenta invece la nuova Defence Industrial Strategy. Il ministro John Healey annuncia fondi per 432 milioni di sterline: 250 milioni destinati a cinque “Defence Growth Deals” regionali e 182 milioni per programmi di formazione e competenze. Obiettivo dichiarato: fare della difesa un motore di crescita economica, spingere la spesa militare al 2,5 per cento del Pil entro il 2027 e creare decine di migliaia di nuovi posti di lavoro. La strategia non è neutrale: lo stesso ministero sta valutando l’assegnazione di un contratto da 2 miliardi di sterline per l’addestramento di 60mila soldati all’anno a Elbit Systems Uk, filiale del più grande produttore di armi israeliano.

La Dsei 2025 diventa così il simbolo di un doppio binario. Niente delegati israeliani per segnare la distanza politica da Gaza, ma cinquantuno aziende presenti con i loro stand. Una condanna ufficiale che non tocca la sostanza degli affari. Per Israele un danno d’immagine, per gli attivisti la conferma che le armi continuano a circolare nonostante i crimini di guerra contestati dalla Corte internazionale di giustizia.

La contraddizione è tutta qui: mentre fuori si denuncia la complicità, dentro si firmano contratti e si annunciano investimenti pubblici. Alla DSEI 2025 le bombe cadute ieri diventano i prodotti esposti oggi. E Londra, nel tentativo di tenere insieme diplomazia e industria, finisce per mostrare quanto la distanza tra etica e commercio resti siderale.

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