In volo per l’Italia, dove era atteso per il G20, Boris Johnson ha regalato ai taccuini la più feconda tra le castronerie per cui è famoso: «L’impero romano cadde per gran parte a causa dell’immigrazione incontrollata. Non poteva più controllare i suoi confini, la gente entrava dall’est, dovunque, e così piombammo nei secoli bui».

Non è chiaro cosa accomuni gli stranieri inermi che oggi cercano rifugio o fortuna in Europa e i guerrieri Visigoti, peraltro cristiani e latino-parlanti, che nel 410 misero a sacco l’Urbe. Ma è vero che mantenere il controllo delle zone di frontiera fu sempre tra le prime preoccupazioni dell’impero, e forse di ogni impero durato nella storia.

Si trattava di scoraggiare potenziali invasori e proteggere le regioni periferiche da incursioni barbariche; e per tutto questo occorreva innanzitutto stabilizzare i territori limitrofi con accordi di vario tipo, sortite militari, doni, minacce, alleanze, blandizie. La tenuta di quella fascia limitrofa era fondamentale per evitare sorprese.

Crisi alle frontiere

Ora gli imperi non esistono più ma se c’è sulla Terra una grande costruzione multietnica che degli imperi eredita le necessità geopolitiche, quella è, almeno in potenza, l’Unione europea. Che proprio in questi mesi si scopre assediata proprio sulle frontiere, lungo un arco di crisi senza precedenti per intensità e per estensione.

Mentre regimi confinanti con la Ue trasformano i profughi in strumenti di aggressione e di ricatto, dall’Ucraina ai Balcani fino alla sponda sud del Mediterraneo aumentano i conflitti in divenire; e attirano, irresistibili, potenze predatrici, a proprio agio in quelle bolge come squali nell’acqua torbida. Soltanto in Libia gli attori extra-europei che hanno puntato una fiche sul caos sono una decina, in testa Russia, Egitto, Turchia, Emirati. 

A fronte di queste insidie un tempo gli europei avrebbero chiesto al grande alleato americano di agitare il bastone. Ma diminuita l’influenza degli Stati Uniti, o almeno la loro disponibilità a impegnarsi dove non abbiano interessi in gioco, l’Unione europea pare a corto di soluzioni.

Dodici dei ventisette membri hanno proposto senza successo la costruzione di una specie di grande muraglia europea; e ora alcuni cercano strade alternative. Ecco allora le polizie di frontiera col passamontagna calato che respingono “richiedenti asilo” a manganellate, fingendosi torma di privati cittadini; e l’esercito polacco impegnato in una gara di disumanità con l’esercito bielorusso lungo un confine stipato da afghani e siriani semi-assiderati; e la tentazione crescente, echeggiata in un progetto di legge del governo britannico, di garantire l’impunità a militari che rifiutassero soccorso a migranti (traduzione: lasciateli affogare o crepare di freddo).

Quanto più la Commissione europea fatica a proteggere i principi dello stato di diritto liberale dalle politiche dei paesi membri, tanto più cresce il rischio che la Ue perda identità, orizzonte, le ragioni della propria diversità.

Allo stesso tempo è evidente che gli europei, fermo restando il loro dovere di accogliere i perseguitati, non possono restare alla mercé di qualsiasi tiranno tenti di ricattarli scaraventando diseredati sulle frontiere. Né dovrebbero accettare supinamente che stati limitrofi si dissolvano nell’anarchia militare, non fosse altro perché queste putrefazioni comportano traffici loschi di ogni tipo, terrorismo, ondate di profughi, massicce violazioni di diritti umani, e prima o poi l’installarsi tra le rovine di potenze extraeuropee con basi militari, centrali d’ascolto, reti spionistiche, milizie. Dunque?

Autonomia strategica

La soluzione è nota e si chiama “autonomia strategica” dell’Unione europea. Che oggi vuol dire molte cose in molti campi, dalle forniture di idrocarburi alla tecnologia. Ma nel settore Difesa la sua essenza è ancora quella espressa così nel 2016 in un documento programmatico della Ue: la capacità di agire insieme a Nato e Onu quando è possibile, da soli quando non lo è.

All’epoca questo era appena un bisbiglio. Però da allora la presidenza Trump, l’evidenza di un’America first non benevola verso l’Europa, infine la rotta di Kabul hanno dimostrato agli europei che devono imparare a cavarsela da soli – oggi innanzitutto per riportare ordine sui loro confini.

Di conseguenza negli ultimi mesi “autonomia strategica” è diventato il concetto centrale nei rapporti di istituzioni e think-tank europei. «Richiederà alla Ue di prendersi maggiori responsabilità e rischi nelle regioni vicine», non solo sul piano economico e politico, ma anche sul piano militare, prevedeva Nathalie Tocci (Istituto affari internazionali) prima ancora che la crisi dei confini raggiungesse la virulenza attuale.

Però la Ue, aggiungeva, non ha «le capacità, i meccanismi decisionali e la cultura strategica per intervenire nel modo in cui intervengono altri attori regionali e globali». Meglio così, si potrebbe concludere considerando i disastri prodotti da guerre recenti che hanno impegnato eserciti europei.

Ma disastri non meno gravi li ha prodotti l’inazione di stati della Ue che pur avendo le capacità di agire si sono sottratti per evitare rischi, sosteneva la Tocci, citando a conferma «i casi della Libia, dell’Ucraina e del Caucaso».

Si può tradurre tutto questo in “l’Europa deve riconoscere e interpretare la sua dimensione “imperiale”, almeno per quanto riguarda la stabilità dei suoi confini”? Qualsiasi scienziato della politica inorridirebbe, trovando la metafora imperiale scorretta, triviale, in una parola giornalistica.

Sarà senz’altro così, ma non è con i comunicati di Bruxelles o le analisi dei think-tank che l’europeismo riuscirà a entusiasmare gli elettorati. Gli occorre quel che oggi manca del tutto: una narrazione che minimamente appassioni. E simboli conseguenti.

Forza armata europea

Anche per questo la costituenda Forza europea di intervento rapido è assai più rilevante di quanto si racconti. Dopotutto, 5mila europei che rischiano la pelle sotto la bandiera azzurro-pallido con le 27 stelline in cerchio inducono curiosità, forse simpatia, e magari più euro-patriottismo di quanto ne cristallizzerebbe una super-nazionale europea di calcio impegnata nella Coppa dei quattro continenti.

Multietnico come ogni esercito imperiale, quel potenziale grumo di Forza armata europea dovrebbe essere pronto entro due anni, sostiene la bozza di un documento che dovrà essere discusso e approvato dai governi Ue a marzo.

Sarà complementare e non alternativo alla Nato; ma avrà i mezzi per interventi autonomi, ridurrà l’asimmetria rispetto all’alleato americano con programmi propri di armamento, e poiché in teoria costringerà l’Europa a darsi non solo una propria dottrina militare ma anche propri meccanismi decisionali, sarà un incentivo a una politica estera comune. E tutto questo spiega perché il progetto abbia incontrato e incontri resistenze in alcune capitali.

Ne diffidano gli europei “piccoli”, fiutando una condanna all’irrilevanza; europei meno piccoli, temendo lo sgomitare della Francia, e (anche in Italia) un atlantismo sospettoso e impettito, cui potrebbero sommarsi le lobby delle industrie belliche americana e britannica per ragioni di bottega.

Per chi lo sostiene – tra questi il generale Claudio Graziano, presidente del Comitato militare della Ue – evitare che sia svuotato non sarà meno complicato di quanto fu per Graziano districarsi nella mischia mediorientale quando comandava la missione Onu in Libano. Però gli eventi potrebbero togliere argomenti agli scettici.

«Una crisi acuta come la crisi afghana potrebbe far scattare qualcosa», pronosticava in agosto il generale Vincenzo Camporini. L’ex capo di stato maggiore non dava forma al “qualcosa”, però il campo di possibilità include una scorciatoia: giustificata dagli eventi, un’avanguardia di europei anticiperebbe i tempi mettendo subito in campo una missione militare della Ue, certo coordinata con la Nato ma autonoma dagli americani. Prospettiva al momento remota.

Però nessuno può escludere che da qui a pochi mesi uno dei troppi focolai a ridosso dei confini europei produca un incendio devastante. Potrebbe accadere in Libia, se le elezioni previste per dicembre diventassero lo starter di una nuova deflagrazione. Oppure in Bosnia, dove la repubblichetta serba minaccia di costituire un proprio esercito, cioè di secedere, aprendo la strada a una nuova guerra civile che probabilmente vedrebbe accorrere, come in Libia, irregolari russi contro militari turchi. O il Kosovo senza pace. O la Tunisia prigioniera del colpo di stato. O di nuovo l’Ucraina. Tutte situazioni nelle quali la diplomazia europea difficilmente avrebbe successo senza una unità di intenti e un braccio militare.

A quel punto la Ue si troverebbe sul bivio fatale: restare consociazione di nani litigiosi e balbettanti, rassegnati a perdere identità, ragioni ideali, influenza; oppure scoprirsi in qualche modo “imperiale” e cominciare a parlare quel che l’Alto commissario Ue per la politica estera Josep Borrell chiama rudemente «il linguaggio del potere».

Fino a oggi è stato solo balbettio. Ma la storia insegna che quando gli eventi la mettono all’angolo (e solo allora), l’Unione è capace di dotarsi di strumenti per rispondere alla sfida.    

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