Per comprendere cosa succede in Europa in questi mesi non bisogna mai dimenticare il contesto in cui è nata l’Unione europea.

Nel 1992 era appena crollata l’Unione sovietica, la democrazia liberale conquistava l’Europa orientale, la Germania si avviava alla riunificazione e soprattutto il mercato globale, non la sovranità statale, appariva come il grande ponte verso il futuro.

È in questo contesto di rapidi cambiamenti e di grande ottimismo liberale che si sceglie di trasformare la Comunità in Unione, di procedere con l’unificazione definitiva del mercato unico, di dare vita ad una moneta comune europea.

L’Unione europea era vista come un complesso di istituzioni, magari imperfetto sul piano della rappresentanza, ma capace di modernizzare gli stati membri, di farli convergere su riforme comuni di lungo periodo e di innalzare il gradiente di libertà economica, con tutte le sue positive ricadute sociali e politiche, oltre i confini delle vecchie nazioni.

Allo stesso tempo, le stringenti regole economiche dei trattati erano accettate come fattore di stabilizzazione e come sprone al cambiamento dei sistemi politici nazionali. Insomma, l’Unione europea si inseriva in uno scenario di globalizzazione, liberalizzazione dei mercati e relativo superamento della sovranità politica degli stati.

A livello europeo si inaugurava un progetto neo-camerale di governo, in cui la tecnica e l’economia nel governo prevalevano sulla rappresentanza democratica e sulla volontà politica dei parlamenti.

Il cameralismo, corrente di pensiero e prassi di origine tedesca del diciassettesimo e diciottesimo secolo che voleva fondare una scienza del governo e dell’amministrazione trascendendo la politica pura nell’era degli assolutismi, ritornava sotto nuove insegne nel vecchio continente alla fine del ventesimo secolo.

La democrazia parlamentare veniva erosa dalle esigenze della finanza pubblica e dell’equilibrio economico, attraverso una giuridicizzazione degli indirizzi di politica economica dentro l’Unione europea.

La crisi dei vent’anni

Questo sistema codificato nel 1992 ha retto, registrando buoni successi e importanti conquiste, per circa vent’anni senza incrinature sul piano della legittimazione politica. In altre parole, anche se l’integrazione europea era stato soltanto economico-funzionale, priva di una costituzione vera e propria, la sua architettura veniva considerata positivamente da gran parte dell’elettorato.

Tutti o quasi si dicevano europeisti. Con la crisi dei debiti sovrani però iniziarono a cambiare sia le condizioni economiche che quelle politiche.

Sul piano economico, l’Unione europea di fronte alla crisi sceglieva la via, ancora tutta neo-camerale, dei commissariamenti dall’alto e della creazione di istituzioni di sorveglianza finanziaria sugli stati divergenti, come l’Italia e la Grecia, a livello del debito pubblico e del bilancio statale.

Questa volta però le debolezze genetiche delle istituzioni europee nella svolta della crisi iniziavano ad affiorare: i “salvati” erano scontenti perché erano stati espropriati di fatto della propria capacità politica nazionale e rimanevano gravati da vincoli pesanti e possibilità future ridotte; i “virtuosi” erano ugualmente indisposti per aver dovuto prestare denari e assistenza alle nazioni in crisi, avendo subito loro stessi un rallentamento economico importante.

Nel frattempo, mentre in Europa si sviluppava un processo di delegittimazione della classe politica che avrebbe prodotto nuovi populismi e nazionalismi, gli Stati Uniti già con la presidenza Obama inauguravano una politica di rallentamento della globalizzazione, attraverso provvedimenti protezionistici, sia per ragioni geopolitiche che di consenso interno.

Una tendenza che sarebbe cresciuta ulteriormente con l’elezione del populista Donald Trump, vincente alle urne proprio grazie allo slogan America First, per raggiungere i suoi massimi ai nostri giorni con il democratico Joe Biden, capace di combinare protezionismo commerciale e una nuova ondata di interventismo statale a sfondo tecnologico e ambientalista.

Dunque, esauritasi la coda della crisi dei debiti sovrani iniziava per l’Unione europea una fase di congelamento (2014-2020), con bassa crescita economica, crisi migratoria, crescente ruolo di supplenza della Banca centrale europea nella gestione politica oltre che monetaria, impraticabilità del rafforzamento dell’integrazione comunitaria.

Nel 2020 la pressione della pandemia combinata alla crescita dei partiti euroscettici generavano un balzo in avanti per l’élite politica europea, concentrata in partiti centristi sempre più deboli.

I vertici europei – sospendendo regole e patti che parevano sacri fino a poco prima – decidevano di lasciar correre i deficit degli stati e di sviluppare strumenti economici comuni, come il Next Generation Eu e la Sure, per riavviare la crescita dopo i lockdown.

Con questa giravolta – certo dettata dall’emergenza assoluta – i politici europei mostravano sì plasticità e pragmatismo, ma mettevano a nudo anche le eccessive rigidità e i tentennamenti del passato. Le posizioni bollate poco prima come “populiste” ed “euroscettiche” non erano più così distanti, sul piano economico, dalle nuove scelte della Commissione europea.

Al tempo stesso, però, le iniziative comuni denotavano la tendenza centralistica, tecnocratica, dirigista di una politica europea ancora fondata su una scarsa fiducia reciproca tra nazioni che si traduceva in una politica della pianificazione e del controllo da parte della Commissione più che in una discrezionalità nelle scelte di policy lasciata ai singoli stati all’interno del perimetro comune dei programmi europei.

Venne poi il 2022, con l’aggressione russa all’Ucraina e con l’inflazione al galoppo. Il quadro europeo veniva di nuovo sovvertito dopo aver trovato un equilibrio post pandemico: crisi energetica, rallentamento economico, vincolo atlantico più stringente, crescente protezionismo americano e inevitabile ritorno dell’interventismo statale.

Ecco, dunque, che lo scenario del 1992 è oramai completamente sovvertito: una nuova guerra sul suolo europeo, neo-statalismo, protezionismo, forme di rinazionalizzazione e riterritorializzazione dell’economia.

Due scelte

In questo nuovo contesto, l’Unione europea aveva due scelte: la costruzione di strumenti europei e debito comune oppure l’avallo di provvedimenti nazionali.

L’élite cosiddetta europeista ha paradossalmente scelto la seconda strada. I paesi hanno investito da soli, sulla base delle proprie disponibilità, per contrastare la crisi energetica.

Mentre più di recente Germania e Francia hanno spinto per allentare le maglie degli aiuti di stato come risposta al protezionismo americano.

Ancora una volta un accordo europeo ha di fatto sancito una soluzione “nazionalizzata” della trasformazione economica con il paradosso di sancire una forma di protezionismo all’interno del mercato unico con conseguente distorsione dei meccanismi concorrenziali a vantaggio di alcuni paesi.

A fronte di queste scelte viene da chiedersi quale futuro possa avere, anche sul piano della proposta politica, l’europeismo se la soluzione prescelta a Bruxelles è quasi sempre quella di nazionalizzare le soluzioni.

Ma come possono difendersi le attuali istituzioni europee se i partiti che si autoproclamano europeisti sono i primi ad avallare deroghe e veti all’integrazione europea? E come distinguersi, alla fine dei conti, dai partiti sovranisti e nazionalisti?

Può bastare un programma comune molto vincolante, il Pnrr, per tracciare un solco tra europeisti e non? Tutte queste domande oggi senza risposte chiare prefigurano nel futuro la possibilità di una ristrutturazione del sistema politico europeo, non più tra europeisti ed euroscettici ma forse di nuovo tra destra e sinistra, che oggi appare piena di incognite e angoli ciechi.

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