Con l’aggressione russa in Ucraina è tornato attuale un tema molto lontano dalla mentalità occidentale, sempre più secolarizzata e ignara della storia: la presenza e l’uso delle icone come aiuto durante i conflitti. Anche le icone infatti vanno in guerra. Comprese le più famose, come La Trinità di Rublëv e quella nota in occidente come la Madonna della tenerezza, celeberrima e innumerevoli volte riprodotta.

Anche se da decenni queste antiche immagini tipicamente orientali si sono affermate e sono sempre più diffuse in occidente per riempire un vuoto lasciato dalla crisi dell’arte sacra, oggi il motivo profondo del loro fascino sottile – radicato in vicende storiche e teologiche intricate – in buona parte sfugge e resta enigmatico. Per questo sorprendono le icone in guerra.

Non semplici immagini

Ma questi dipinti non sono considerati semplici immagini. La legittimità della rappresentazione di Dio e delle sue creature, nei primi secoli rifiutata e contestata anche in ambito cristiano, viene definitivamente affermata nel 787. Contro gli iconoclasti, che nell’impero bizantino ritenevano idolatria venerare le icone e le distruggevano, il secondo concilio di Nicea – accettato in oriente come in occidente – decreta invece che «le venerande e sante immagini, sia dipinte che in mosaico o in qualsiasi altro materiale adatto, debbono essere esposte nelle sante chiese di Dio, sulle sacre suppellettili, sulle pareti e sulle tavole, nelle case e nelle vie».

Le raffigurazioni di Cristo, o della «santa Madre di Dio, dei santi angeli, di tutti i santi e giusti» rimandano infatti al «ricordo e al desiderio dei modelli originali», perché – secondo l’affermazione centrale del concilio – «l’onore reso all’immagine appartiene a colui che vi è rappresentato, e chi venera l’immagine venera la realtà di chi in essa è riprodotto». È questa la base sostanziale della teologia delle immagini, fondata sull’incarnazione di Cristo, vero Dio e vero uomo. L’icona dunque ha grande importanza nella fede e nella liturgia come presenza misteriosa del divino. Suscitando un culto che a volte sconfina nella superstizione.

Fino al 1204, anno del tremendo saccheggio da parte dei crociati, a Costantinopoli era viva la convinzione che la città fosse inespugnabile perché «era fondata sulle icone miracolose e sulle reliquie, alle quali si attribuiva la salvezza in caso di catastrofi esterne e interne» osserva Hans Belting nel fondamentale Immagine e culto ora riedito da Carocci. Ma proprio allora molte icone e reliquie vennero trafugate e portate in occidente come bottino di guerra.

I veneziani non riuscirono però a impadronirsi dell’immagine della Madre di Dio «che mostra la via» (hodighìtria), cioè il Cristo bambino tra le sue braccia. Attribuita all’evangelista Luca, l’icona era veneratissima dagli imperatori perché da secoli veniva considerata la difesa della città, tanto che nel 1261, riconquistata Costantinopoli ai latini, il sovrano bizantino la seguì a piedi nudi nel corteo trionfale.

I crociati s’impossessarono invece di una sua replica, strappandola dal carro di guerra del comandante dell’esercito greco: è la Vergine «che porta la vittoria», detta appunto Nicopèia e che da allora è nella basilica di San Marco a Venezia.

Nella capitale bizantina, la gigantesca chiesa di Santa Sofia – trasformata in moschea dal 1453 al 1931 e ora dal 2020 – ospitava tra le molte immagini un’icona della Trinità appesa sopra la reliquia del «tavolo autentico proveniente dal bosco delle Querce di Mamre», luogo biblico di una misteriosa apparizione divina. Là, secondo il diciottesimo capitolo della Genesi, Abramo aveva accolto tre visitatori, che nelle interpretazioni cristiane sono la «manifestazione visibile delle tre persone divine», teofania che anticipa la fede trinitaria.

La più perfetta

Questo modello costantinopolitano fu replicato moltissime volte: intorno al 1425 lo dipinse il russo Andrej Rublëv, il monaco pittore protagonista del film di Tarkovskij che il patriarcato di Mosca ha canonizzato nel 1988. E nella sua icona – dichiarata da un concilio la più perfetta e dunque modello di tutte le icone – i tre angeli siedono quietamente attorno al tavolo, la cui reliquia era conservata appunto a Santa Sofia. «Abramo è sparito, la tavola diventa un altare con sopra la coppa eucaristica» riassume Alain Besançon (L’immagine proibita, Marietti). «Esiste La Trinità di Rublëv e dunque Dio esiste» arriverà ad affermare Pavel Florenskij, autore del più bel libro sulle icone (Le porte regali, Adelphi) che nel 1918 la studiò per il restauro.

Fragilissima, per secoli la grande icona è stata a Sergiev Posad, grande centro dell’ortodossia russa a una settantina di chilometri da Mosca, nel monastero della Trinità di San Sergio. Trasferita nel 1929 alla Galleria Tretjakov, un mese fa, per ordine di Putin, è stata restituita alla chiesa nonostante l’opposizione di tutti gli esperti che temono per la sua conservazione, obiettivamente difficile per le delicatissime condizioni del capolavoro. Esposta da un paio di settimane nella nuova e luccicante cattedrale di Cristo Salvatore a Mosca, l’icona, assicurata per un’enorme cifra, già domani dovrebbe tornare nel museo.

Ma è lecito dubitare della sua sorte. Basti pensare che persino l’incaricato per le arti della chiesa russa, l’arciprete Leonid Kalinin, il quale si era opposto allo spostamento dalla Galleria Tretjakov, è stato immediatamente rimosso dal patriarca Kirill. Al contrario, Mikhail Piotrovskij, da trent’anni inaffondabile direttore dell’Ermitage (come già suo padre), ha dichiarato invece che il significato sacro della reliquia supera il suo valore artistico, e anzi che il capolavoro di Rublëv «assolverà alla sua funzione simbolica per portarci alla vittoria».

La Vladimirskaia

In guerra è stata più volte portata anche la più celebre e venerata icona mariana, detta della Tenerezza ma che è nota in Russia come Vladimirskaia, cioè la Madre di Dio di Vladimir, città a quasi duecento chilometri a est di Mosca. Inviata al gran principe di Kiev dal patriarca di Costantinopoli intorno al 1131, l’icona raffigura Maria abbracciata in modo toccante dal bambino. La madre lo stringe e lo indica come via di salvezza mentre il suo sguardo malinconico e struggente è «rivolto in lontananza, dove le si rivelano gli eventi futuri» scrive Belting. «Guardo l’icona e dico tra me: è lei stessa» diceva Florenskij.

Anche per questa icona il modello è l’antichissima immagine della hodighìtria attribuita a san Luca e inviata nel 439 da Gerusalemme a Costantinopoli, ritenuta perduta dopo la conquista turca ma che nel 1989 è stata clamorosamente identificata da Margherita Guarducci in quella del santuario campano di Montevergine. In ogni caso l’immagine bizantina giunta inizialmente a Kiev arrivò nel 1155 a Vladimir, dove venne costruita la cattedrale della Dormizione di Maria.

Da qui l’icona fu portata nel 1395 a Mosca per proteggerla dall’invasione dei mongoli guidati da Tamerlano. Davanti all’immagine collocata al Cremlino il gran principe Basilio I passò un’intera notte in preghiera tra le lacrime e il giorno dopo i nemici si ritirarono. Ma secondo la tradizione altre due volte, nel 1451 e nel 1480, l’icona di Maria salvò la città dalle orde tatare. E alla fine del 1941 ancora una volta decisiva fu la protezione della Vladimirskaia, che Stalin avrebbe fatto collocare su un aereo in volo per salvare Mosca dall’invasione dell’esercito tedesco di Hitler. Che infatti non arrivò alla capitale e iniziò a ripiegare.

Segno di un’altra resistenza, quella ucraina alla guerra russa, sono infine quattro icone del VI e VII secolo che da mercoledì scorso e fino al 6 novembre sono esposte al Louvre insieme a un’altra immagine medievale rarissima, realizzata in micromosaico, che raffigura san Nicola. Trasportate in segreto a Parigi dal museo Khanenko di Kiev che in ottobre è stato raggiunto da un missile russo, i quattro dipinti più antichi rappresentano la Madre di Dio con il bambino, Giovanni Battista e, in due versioni, Sergio e Bacco, martiri militari veneratissimi in oriente.

Le magnifiche icone provengono dal monastero di Santa Caterina sul Sinai, e sono anteriori alla controversia iconoclasta. Acquisite nel 1885, sopravvissute ai due conflitti mondiali e in epoca sovietica entrate nelle collezioni del Museo antireligioso, stanno ora attraversando la loro terza guerra.

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