Nulla sarà come prima nella Russia di Putin. Persino i più convinti corifei del regime non hanno dubbi. «Le torri del Cremlino sono in fiamme», titolava ieri, con adeguato tono biblico, il sito Tsargard dell’oligarca ultraortodosso Konstantin Malofeev. Dopo il tentato ammutinamento di Wagner il mito dell’invicibilità di Putin e del suo regime a prova di golpe è andato in frantumi. Per 36 ore il leader paramilitare Evegny Prigožin ha potuto spadroneggiare. Ha occupato basi militari, abbattuto elicotteri, ucciso soldati russi, ha marciato su Mosca e non ha deposto le armi nemmeno quando gli è stato ordinato. Come punizione, Prigožin ha ricevuto un buffetto. Un esilio probabilmente dorato in Bielorussia, un’ amnistia totale per i suoi uomini. Non solo. Putin ha dovuto digerire anche la suprema umiliazione: che la trattativa per fermare Prigožin e la sua sua colonna diretta a Mosca sia stata condotta da Alexander Lukashenko, il leader della Bielorussia e il più umile dei suoi alleati.

Problemi di lealtà

«La Russia è un indovinello avvolto in un mistero all'interno di un enigma», disse Winston Churchill all’indomani della spartizione della Polonia tra Hitler e Stalin. Questa visione della Russia come una matrioska di intrighi tiene banco ancora oggi. E se il tentato golpe non fosse altro che una manovra orchestrata, un intrigo dentro un altro intrigo? Si chiedono oggi in molti. Ma a volte il grande enigma russo è più semplice di come sembra. Per un leader come Putin, che ha costruito la sua legittimazione sull’idea di essere indispensabile, quello di ieri è stato un colpo durissimo. Per recuperare credibilità agli occhi della sua cerchia ristretta e delle élite del regime, dovrebbe lanciare una purga in stile staliniano. Dimostrare che, come in passato, nessuna sfida alla sua autorità può essere accettata. Ma il regime non sembra più avere le energie necessaria per un’operazione così brutale.

Gli apparati di sicurezza, gli spioni che costituiscono la principale colonna del regime, hanno fallito completamente. Prigožin ha avuto settimane per prepare il suo ammutinamento, mettere da parte armi, munizioni ed equipaggiamenti, studiando dove e come colpire. Tutto sotto il naso dell’intelligence che non solo non è riuscita a fermarlo, ma non ha nemmeno avvertito il Cremlino in tempo.

Anche l’esercito ha dato prova di non essere affatto il bastione del regime che Putin sperava che fosse. Durante l’ammutinamento di Wagner il pericolo principale per Putin non sono mai stati i circa 5mila miliziani che alla disperata stavano marciando su Mosca. Il pericolo era che i soldati a guardia della capitale si rifiutassero di sparare su Prigožin. Così come non hanno sparato le truppe che sorvegliavano il quartier generale di Rostov, le caserme di Voronezh e gli aeroporti circostanti, tutti occupati senza sparare un colpo dai soldati di Wagner.

Dopo un anno e mezzo di guerra, in particolare, la lealtà degli ufficiali di truppa non sembra più garantita. Tenenti, capitani, maggiori e colonnelli rischiano la vita insieme ai loro soldati e pagano quanto loro gli errori degli alti comandi. Questi ufficiali hanno tutti Telegram sui loro smartphone, leggono avidamente i “milblogger”, sono estremamente critici nei confronti del ministero della Difesa e, almeno fino agli ultimi giorni, spesso consideravano Prigožin un loro eroe.

Il regime non può più contare nemmeno sul supporto popolare. I sondaggi indicano che Putin e la guerra sono ancora popolare, ma questo supporto è freddo e passivo. Quando nel 2016, Erdogan ha chiamato a raccolta la popolazione per fermare il colpo di stato, le strade di Istanbul si sono riempite di centinaia di migliaia di persone che hanno sfidato i carri armati e costretto i golpisti a tornare in caserma. Nulla del genere è accaduto in Russia. Anzi. A Rostov la popolazione è scesa in strada per scattarsi selfie con gli uomini di Prigožin e quando a sera la polizia ha preso il loro posto, è stata accolta da fischi e insulti.

Un’alternativa è possibile

Prigožin probabilmente non ha mai avuto reali possibilità di portare a termine il suo golpe. Per quanto popolare sui social e tra gli ultranazionalisti, il fondatore di Wagner è pur sempre un outsider, senza una reale base di potere autonoma, dipendente dal Cremlino per pagare e armare i suoi soldati. L’élite del regime lo disprezza come un rozzo parvenu, ed è da lui abbondantemente ricambiata.

Dopo il suo abortito ammutinamento, le sue quotazioni sono scese ancora di più. Ha deluso coloro che speravano che portasse fino in fondo la rivolta e allo stesso tempo tutti coloro che invece hanno vissuto la sua azione come una pugnalata alle spalle ad un nazione impegnata in un conflitto esistenziale. «Da oggi milioni di russi non potranno più guardare negli chi ieri celebrava l’abbattimento dei nostri elicotteri», ha scritto Alexander Khodakovsky, un celebre ex ufficiale ucraino che oggi comanda un battaglione filorusso nel Donbass.

Ma, pur fallendo, Prigožin ha dimostrato che un’alternativa a Putin è possibile. Dopo oltre 20 anni in cui il presidente russo ha lavorato alacremente per dare l’impressione che dopo di lui l’unica alternativa fosse il diluvio, per 36 ore Prigožin ha dato l’impressione di poterlo scalzare e senza nemmeno doversi impegnare troppo. Putin è apparso debole, sorpreso, assente e peggio di tutto: non in controllo della situazione.In un regime verticale, dove tutto il potere discende da un presidente che personifica l’essenza della nazione, aprire un spiraglio sulla possibilità di un’alternativa è come rivelare che lo zar è nudo. Putin è essenziale solo fino a che tutti credono che lo sia. Sabato Prigožin ha dimostrato che non lo è affatto.

Chi sarà il prossimo

Ma se non il leader mercenario, chi o cosa potrebbe sfruttare questa nuova realtà? Dopo vent’anni trascorsi passivamente ad arricchirsi sotto il giogo putiniano, gli oligarchi che crearono Putin per evitare quella che sembrava una vittoria certa dei comunisti, non sembrano i primi candidati. Quelli che avevano velleità politiche o personalità carismatiche, sono finiti in esilio o assassinati. I superstiti hanno tollerato il sequestro delle loro ville in Costa Azzurra e accettato di buon grado di trascorrere il resto delle loro vacanze a Sochi. Nella Russia di Putin il poter resta è nelle mani degli apparati di sicurezza, i silovki, spie e poliziotti che Putin ha promosso in tutti gli incarichi chiave. Dopo di loro arrivano i generali, la cui reputazione esce appanata dalla guerra, ma che hanno ancora il controllo delle forze armate. Terzo posto nella piramide è quello dei ministri tecnici: non decisivi, da soli, ma il cui assenso è fondamentale per mandare avanti l’economia.

Difficile immaginare qualcuno di loro fare una mossa nel breve periodo. Ma Prigožin ha dimostrato lori che se decidessero di farlo, il fallimento non sarebbe né automatico né garantito come si pensava. Se la guerra dovesse continuare ad andare male, se Putin dovesse dare la crescente impressione che è lui il principale ostacolo a una soluzione in grado di salvare i loro posti, tutti gli scenari da oggi saranno possibili.

 

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